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“Maestro Zeman, il Ken Loach del calcio italiano”

di Giovanni Vasso -

ZDENEK ZEMAN ALLENATORE CALCIO


Il calcio e Zeman. Se la passione si potesse spiegare cesserebbe immediatamente di esistere. L’irrazionale non può essere analizzato, né esaminato. Si può, però, raccontare. E Giuseppe Sansonna, autore e regista Rai, scrittore e documentarista, è un narratore instancabile che da anni percorre l’Italia e ne racconta le passioni ovunque esse si trovino. Dagli Appennini a Cuba, dai casermoni della Hollywood sul Tevere ai gradoni di uno stadio. Da Tomas Milian a Carmelo Bene e Pasolini, fino a Zdenek Zeman. Proprio del Boemo, oggi al Pescara in Serie C, a cui ha dedicato due documentari, Sansonna parla con L’Identità.

Perché raccontare la passione, perché il calcio?
La lente di un fenomeno collettivo, corale, offre chiavi di lettura molto forti su chi siamo. Come dice il filosofo della politica, Gennaro Carillo, il partito ha ceduto il passo alla partita. Accade a Napoli. Dove i quartieri non si parlano tra loro ma si ritrovano, in mezzo a mille paradossi, a esultare per lo scudetto. Ci sono stato a Napoli, a marzo. Per raccontare il paradosso di una squadra che ammazza il campionato a marzo e di una città costretta, nell’attesa della matematica che non arrivava, a festeggiare nell’attesa della festa vera. E questo nella città più scaramantica di tutte quella che, nel Mediterraneo, è più vicina a Macao, in cui c’era Aurelio de Laurentiis, conti in ordine e nemico giurato della pizza e dei cliché, attentissimo a tenere la squadra lontana dalla visceralità della città. Quella in cui Diego Armando Maradona, spettro gigantesco già divinizzato in vita, si era tuffato con tutte le scarpe.

Zdenek Zeman a Roma è ancora un mito ma a Napoli non andò bene.
Forse coi biancocelesti aveva una squadra più adatta al suo calcio, ma credo sia più legato ai giallorossi perché tra i tifosi della Roma ha percepito una passionalità più vicina a quella meridionale. Zeman adora creare nel calcio qualcosa che faccia trasfigurare, nell’esultanza generale, chi va allo stadio. In una intervista recente, Zdenek ha usato il termine “impazzimento”. Ecco, proprio come se celebrasse un rito. Così vive il calcio, Zeman. Spalletti, però, qualcosa di “zemaniano” l’ha fatta costruendo un collettivo meraviglioso. Facendo passare un’idea subliminale: se le persone si mettono insieme, rispettando l’individuo e dialogando ciascuna nel rispetto del suo e del talento altrui, insieme possono fare qualcosa di grande, di storico. Sì, è vero: l’esperienza di Zeman a Napoli non è rimasta indimenticabile. Eppure c’erano tutte le componenti dell’eterno ritorno del maestro che viene dalla nebbia di Praga: il mare, la piazza, la passione e il calore del Sud. Forse mancava un aspetto che fa la differenza: si sa, Zeman dà il meglio di sé in provincia.

Come a Foggia?
Lo stadio Zaccheria sovrappopolato, le teste contro le teste, una folla sospesa nell’attesa della partita. I grandi della A che, a Foggia, venivano letteralmente subissati dal calore del tifo rossonero e dal gioco sciamante della squadra. Lo racconta Di Biagio, l’ho vissuto da ragazzino allo stadio. E poi, Zdenek Zeman già allora aveva volto che parlava cinema.

In che senso?
Ai tempi del Foggia, c’erano lui, ceco, parco di parole: una sorta di Clint Eastwood diretto da Ari Kaurismaki, avvolto in un trench alla Bogart. E poi c’era Pasquale Casillo, napoletano e guascone, una specie di Robert De Niro ne Gli Intoccabili. Mi chiedevo come parlassero tra loro, che erano così radicalmente diversi, eppure si capirono costruendo una favola bella del calcio.

Zeman è rimasto lo stesso di allora, è l’ultimo dei maestri in un mondo di manager?
In una delle ultime interviste che gli ho fatto, Zeman – con il suo “ci” verghiano, di quella Sicilia dalla quale ha iniziato a insegnar calcio – mi disse “Prima ci facevo da padre, ora ci faccio da nonno”. A lui interessa che i suoi ragazzi stiano bene, che giochino bene e che facciano divertire chi va allo stadio. È uno di quei grandi artisti che può andare avanti all’infinito. La sua è l’immagine al Caffè Flaming, sulla Flaminia, in attesa di una telefonata che, alla fine, arriva sempre. È come un regista indipendente, una specie di Ken Loach del football, pronto a lanciarsi in nuove avventure, specialmente al Sud, dove non c’è niente oltre al calcio, dove si registra un’adesione al tifo disperata e passionale, senza alcuna distanza.

Ma intanto il calcio attorno a lui (e a noi) è cambiato…
È come il paradosso delle rane bollite. Piano piano siamo scivolati dentro un mondo che è tutto diverso da quello che ci ha fatto innamorare. Prendi il caso Lukaku. Non dico che un tempo certe cose non sono accadute, anzi. Ma oggi è la normalità. Ho vissuto gli anni ’80 e ’90 e sapevi, incontrando ogni squadra, chi fossero i suoi “cavalieri”. Per dirne una, sapevi che alla Samp c’erano Vialli e Mancini, alla Roma Voeller e Giannini. Ma è più facile, e in un certo senso è violento, acquistare subito il campione che vuole la piazza. Così non si crea granché e il calcio italiano, che è già in crisi di valori, dovrebbe pensare se non sia il caso di ricostruire un po’ di epica. Ma temo che non andrà così: lo vediamo anche nella musica. Un tempo, ascoltando i Righeira, pensavi che Vamos alla Playa fosse qualcosa di troppo leggero. Al confronto coi tormentoni dell’estate 2023, Johnson e Michael Righeira sembrano Bach. Siamo troppo abituati al junk food per apprezzare la buona cucina. Che solo con il tempo, come sa benissimo Zdenek Zeman per il calcio, si può gustare davvero.


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