Cultura & Spettacolo

The Last Kingdom, buono il film

di Nicola Santini -


In genere il film che segue una serie la sotterra definitivamente. Il più delle volte non se ne sente il bisogno. C’è un pubblico affezionato, ma saturo che con la pellicola rischia di prendersi il colpo di grazia. Non è il caso di The Last Kingdom: sette re devono morire, che invece oltre ad avere un senso, posso aggiungere che ne ha parecchio. Lo dico perché io ho visto il film prima di vedere la serie, mi è piaciuto talmente il film che mi vedrò la serie. Io come tante altre persone che hanno voluto vedere quello che potrebbe esser nato (ma anche no) come epilogo, invece come un buon inizio per poi riavvolgere il nastro.
Tutto nasce da una profezia, di tale Ingrith (Ilona Chevakova), moglie di Finan (Mark Rowley), fidato compagno del protagonista, Uhtred (un eccellente Alexander Dreymon): “sette re devono morire”. E qui ci siamo. La trama non si trascina, va abbastanza al sodo: Re Edoardo è morto. La pace, costruita con fatica, è nuovamente in discussione. Ed la serenità traballa. Qui mi hanno dovuto spiegare che “ The Last Kingdom: sette re devono morire”, riprende direttamente il finale della quinta stagione, andando poi di acceleratore di alcuni anni. La morte di un Re è uno scossone ma anche uno stimolo a battersi per il potere dei vari re che puntano ad un regno non da poco. I diretti eredi sono Aethelstan (Harry Gilby) e Aelweard (Ewan Horrocks), in ballo per rivendicare la corona.
Con un’inevitabile guerra alle porte, Uhtred da Bebbanburg, che non ha ambizioni regali, si trova nuovamente davanti ad un bivio: quale sarebbe la direzione più opportuna prendere? Il cuore gli domanderebbe di aiutare il fidato principe, Aethlestan, ma il ragazzo sembra aver perso la nobiltà che lo contraddistingueva, abbracciando i princìpi della religione indotta dal suo consigliere Lord Ingilmunder (Laurie Davidson), che non si capisce bene a che gioco stia giocando. Poi, benché il baricentro del film non ruoti come avrei voluto io attorno all’incoronazione a Winchester, ma va pari pari a concentrarsi sulla minaccia del guerriero danese Anlaf (Pekka Strang) che vorrebbe approfittare del caos per separare l’Inghilterra, si arriva come pilotati al grande dilemma, ossia: se “la guerra arriverà”, Uhtred dovrà “scegliere da che parte stare”. Sette re, oppure solo uno? Da lì il titolo, per quello dico che tutto ha un senso. Perché tante volte i titoli sono dati a casaccio.
Tutta l’atmosfera è immersa in un colorito grigiore, c’è, tra le nebbie perfino dello humor per il quale bisogna essere allenati. So che molti non se ne sono nemmeno accorti. Ma questo fare humor con leggerezza senza che poi il tutto risulti fatto alla leggera a me ha intrigato. Siamo comunque in altre epoche. E un po’ quella polvere va anche giustificata. La serie che ha preceduto e che nel mio caso seguirà il film, come già altre che raccontavano i vichinghi e il loro intreccio con l’isola d’Inghilterra, cercava di spiegare, unendo fatti reali e finzione, la formazione del primo vero regno unito di Inghilterra, dopo un periodo fatto di divisioni, a cavallo dell’anno 1000. Non prendiamola come documento storico, qui c’è da godersi le scene in abbondanza, senza stare lì a fare la punta ai libri accademici. Ma torno sulla trama, così da dare una logica al pensiero. Mentre i due fratelli si scannano sulla successione, approfittando della situazione di incertezza si vede formarsi un’alleanza di re, irlandesi, scozzesi, gallesi e delle isole inglesi che si scaglia contro il nuovo re. Questa alleanza vuole lottare per annullare l’egemonia Sassone sull’isola. Da questo scannarsi nascerà forse la versione entry level di un regno d’Inghilterra. In mezzo c’è dunque Uthred di Bebbanburg che fa di tutto per non far cadere l’isola inglese in guerra, mediando, come può tra le due parti. Uthred ha inteso che ora è il momento di unire l’Inghilterra sotto un unico re, e nonostante le mille difficoltà lotterà al fine di realizzare questa sua idea per tutta la durata del film.
Le battaglie sono spettacolari, appoggio la scelta di concentrarle nella seconda parte del film. La quantità esuberante di argomenti che gli sceneggiatori erano abituati a veder spalmati in una serie si capisce che fa un po’ fatica ad essere zippata in sole due ore di film, per questo si ricorre a sistematici capovolgimenti e colpi di scena soprattutto nella prima parte si corre molto per andare al sodo senza dar tempo a chi, come me, non ha visto la serie, di capire a fondo. Però, con tutti i film lenti, lentissimi, che ci propinano, direi che il test lo passa.


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