VISTO DA – Nulla di più grigio della Sirenetta nera
L’uscita del film è stata anticipata dai soliti piagnistei. Ergo, se il muro dei 100 milioni di esseri umani non è stato sfondato in un week end in cui più o meno eravamo tutti al mare è, ovviamente, perché siamo tutti razzisti.
Sarà pure, ma, insieme a me, in sala, di gente ce n’era parecchia ad ascoltare il canto della Sirenetta così strombazzata da obbligarti ad andare a vederla (sempre perché se no sei razzista). E più o meno, nel mare magnum di certe ovvietà a cui eravamo davvero tutti strapreparati, il sentore che i pregiudizi sulla sostituzione etnica fossero un po’ lo scudo più robusto con il quale difendersi dal fatto che prima o poi qualcuno (più di uno) avrebbe detto che tutto il film è, di fatto, giusto quello, era pure da intuirsi.
Però i film si vedono anche per curiosità. E se nella vita si fa di tutto per avere ragione, quando ci si va a svagare, avendo già assaggiato come andrà a finire, dal momento in cui ci si siede in poltrona, si spera sempre di sbagliarsi. Peccato non sia stato così.
Il punto è che i classici andrebbero lasciati stare. Son brutti anche quando vengono restaurati. Di certi dischi son belli anche i graffi delle puntine, perché li contestualizzi a quando la musica si sentiva o così o nulla e si perdona tutto. Qua c’è pure poco da perdonare. Perché la sostanza è: “Il film mi è piaciuto, sono mainstream, il film non mi è piaciuto, sono antico e conservatore”. Che nel mio caso specifico ci può pure stare, ma sarebbe bello che qualcuno si mettesse in testa che il futuro non si scrive riscrivendo o censurando il passato. Perché su questo andazzo, specie al cinema, qualcuno si è fatto prendere un po’ troppo la mano.
Così quando è arrivato sul grande schermo La Sirenetta di Rob Marshall, attesissimo live action tratto dall’omonima opera del 1989 dei Walt Disney Animation Studios, la prima cosa che uno fa appena si riaccendono le luci, è andare a rifarsi gli occhi prendendo in streaming l’originale e sperando che la furia iconoclasta da cui siamo alluvionati, si freni qui, e ci lasci vedere certi capolavori in santa pace, veicolando certi messaggi, che è giusto, anzi giustissimo che siano veicolati, senza forzature e guardando avanti. Questo se si vuole fare cinema e non evento sociale.
Poetico ma non stucchevole l’incipit con una citazione di Hans Christian Andersen, autore della fiaba originale, con immagini favolose che descrivono e illustrano la maestosità, la bellezza, il fascino, ma anche il mistero del mare.
La regia di Rob Marshall è impeccabile. I richiami all’originale, ovvi, ma anche indispensabili, su questo non c’è nulla che si possa contestare. Idem gli effetti visivi che sono particolarmente curati e che non arrivano a infastidire per leziosità. Sulla trama c’è poco da dire. Tutto si attiene a quel che era. Si poteva fare di più? Si poteva, perché a parità di storia, si può anche scegliere un modo di raccontarla che mescoli le carte anche in modo funzionale a quello che, tanto doveva andare così, era lo scopo principe del mettere insieme un lavoro così, ossia sostituire l’etnìa della protagonista, beccarsi quanta più visibilità possibile e stop.
Questo perché se si contestualizza il tutto nella formula voluta del live action, nonostante il tangibile impegno, la devozione, la volontà di replicare un capolavoro, tutte le migliorìe date dall’aver lavorato nel in questo momento storico, non è sufficiente a far sì che la regola base del genere passi totalmente in secondo piano. Ossia il far andar d’accordo le immagini con la colonna sonora.
Tutto sa di posticcio, disconnesso, forzato. E considerato che la trama la si conosce già, è normale che poi un paragone con una certa artigianalità che fa perdonare anche l’imperfezione, poi se passata al setaccio della tecnologia, diventa un macigno meno digeribile. Questo quando poteva rapire, catapultare in altra dimensione, rivitalizzare una storia che abbiamo visto e rivisto e che poteva riaccendere una fiamma su un plot che tocca l’amore verso l’uomo (inteso come genere umano) prima ancora che verso un uomo. Ma che alla fine della faccenda non è, e qui il modo di dire calza come poche volte succede, né carne né pesce. Pure la tematica ambientale viene buttata lì un po’ perché bisogna farlo, ma resta lì. Come bozza, diciamo, ancora ancora, ma se deve passare l’esame, a parer mio, il canto della Sirenetta, bianca o nera che sia, non ammalia per nulla.
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