VISTO DA – My Way. Silvio spiega Berlusconi
Se penso che questo docu-film (chiamiamolo così) l’ho rivisto giovedì scorso, mi si accappona la pelle. E non l’ho rivisto per recensirlo ma perché in un post su Facebook ognuno di noi veniva invitato a ricordare il motivo per il quale ha fatto il primo abbonamento a Netflix e il mio fu proprio My Way. Il motivo per cui oggi lo recensisco è abbastanza ovvio, ma non scontato.
Di questo lavoro potrei anche raccontare la genesi, o meglio, qualche chicca origliata ai tempi della sua lavorazione. Per il libro che lo ha preceduto e ispirato ci furono non poche tensioni. Qualche testa rischiò pure di saltare, così si disse. E io ci godei, perché se avessi potuto avrei dato il mio personale avvallo, non tanto per i contenuti del libro quanto per il piacere di veder rotolare giù dal letto del fiume quella testa. Ma questa è una faccenda privata e i fiumi ogni tanto qualche soddisfazione la regalano ancora.
Motivo due per cui questo lavoro meritava (e merita!) di esser visto è la regia di Antongiulio Panizzi, che per quanto mi riguarda, oltre alla indiscussa bravura dietro le telecamere rappresentava anche una garanzia di non propinarci quell’agiografia patinata che un po’ tutti temono sempre quando c’è di mezzo un personaggio di questa taratura e influenza.
My way non è un’agiografia. Non lo è per niente. Come non lo è il libro, benché le pagine, che se ne dica, sono sempre meno generose delle immagini e il motivo è abbastanza semplice: l’empatia, se ce l’hai in video aiuta. Ti può pure stare sull’anima il personaggio, ma come apre bocca lo stai a sentire, e la vita, quella vita, inevitabilmente affascina.
Le critiche in molti casi sono state feroci, ma, come sempre su certe poltrone ci si siede col culo prevenuto: si vorrebbe assistere a una crocifissione, se non c’è quella il film è fazioso e fa schifo. Mannaggia a loro, il film non è fazioso, non di quel fazio quantomeno.
Oggi va visto come un ottimo contributo storiografico e documento per il futuro sul costume italiano.
Berluscono, lo strilla il sottotitolo, parla con le sue stesse parole. Ma il prodotto parla di luci ed ombre, e lo fa con un certo equilibrio.
Non nasconde, ad esempio, certi capitoli scottanti, che il protagonista, va da sé, ridimensiona: «E adesso le faccio vedere – dice, non enza un’aria scanzonata – questa sala cult (pronunciato con la u voluta, a parer mio) del famoso bunga bunga».
Poi la visita negli spogliatoi con Berlusconi che si rivolge Inzaghi, allenatore del Milan, consigliandogli di «attaccare», davanti ai suoi giocatori. Lì si legge, e si mostra anche un certo imbarazzo del Mr. E dei calciatori presenti. Chiunque altro lo avrebbe considerato un cavallo da cavalcare oppure da nascondere in certe stalle al buio. Qui lo si rende parte del tutto. Perché la narrazione è onesta: Berlusconi sapeva imbarazzare come nessuno e per comprenderlo è fondamentale il piano d’ascolto anche di chi lo guarda con occhio sgomento, senza bisogno di farne una macchietta.
My Way, Berlusconi In His Own Words, questo documentario sulla vita di Silvio Berlusconi tratto dal libro di Alan Friedman, diretto da Antongiulio Panizzi e prodotto dalla Leone film Group, scaturito da oltre 28 ore di registrazione in cui il Presidente (continuano in molti a chiamarlo così) racconta la sua vita, in uno stato di piena fiducia nei confronti del suo intervistatore, indulgente verso se stesso, ma anche aperto, empatico, onesto come raramente i politici sono. Restìo, per una sfiducia maturata nel tempo, alle interviste non “telefonate” come si dice in gergo, qui, si fa vedere per vizi e virtù. Per i peccati, forse ora ci sarà il tempo e il modo, qui il tutto viene narrato senza occultare, ma con una benevolenza forse straripata per il principio dei vasi comunicanti che diventa parte non trascurabile dello storytelling: se sentivi parlare Berlusconi delle sue vicende non c’era mai vittimismo, non c’era mai contraerea, solo un dare quella che secondo gli occhi contagiosi del protagonista era una faccenda che meritava la giusta dimesione, ma che è chiaro (anche dal documentario) quanto gli sia costata cara.
La lezione, se c’è è su quattro zampe: Dudù, che a un certo momento è diventato un amico inseparabile, diventa il simbolo dell’unico fedelissimo del Cavaliere. Bisogna, ovviamente, avere lo spirito giusto per intenderlo. Ma chi ha scritto, rappresentato trasformato 28 ore in un’ora e trent’otto non poteva non capire.
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