L’Ucraina è più vicina all’Europa. A tarda sera, il Consiglio europeo ha deliberato il via libera all’avvio dei negoziati di adesione all’Unione per Kiev e per la Moldavia. L’annuncio è arrivato dal solito tweet, stavolta firmato dal presidente Charles Michel, che ha riferito come il Consiglio abbia concesso “lo status di candidato alla Georgia” e contestualmente ha rivelato che l’Ue “avvierà i negoziati con la Bosnia Erzegovina una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione e ha invitato la Commissione a riferire entro marzo per prendere una tale decisione. Un chiaro segnale di speranza per la loro gente e per il nostro continente”. La direzione di marcia è obbligata, per l’Europa. Che si allarga nei Balcani e nell’Est europeo. In pratica, punta a sottrarre Paesi strategici e importanti alla sfera di influenza della Russia. È la solita vecchia storia dell’eterno scontro tra Mosca e la Mitteleuropa.
La decisione è stata salutata da un profluvio di commenti entusiastici. In cui stona quello rilasciato da Viktor Orban. Il leader ungherese ha rivelato su X di non aver preso parte alla votazione. Ritenendo l’avvio dei negoziati per l’adesione di Kiev all’Europa “una pessima decisione”. Gli altri, invece, hanno brindato. Dalla presidente dell’europarlamento, Roberta Metsola, secondo cui “l’Europa è l’Ucraina e l’Ucraina è l’Europa” fino allo stesso Volodymyr Zelensky che, dopo aver penato giorni e giorni chiedendo ai leader europei di mantenere le loro promesse, ha esultato a una vittoria che “motiva, rafforza e ispira”.
La prima è andata. Ma adesso ci sono almeno altre due incombenze che il Consiglio Europeo ha da affrontare. E lo farà non di giorno, mentre i burocrati, i funzionari, i diplomatici febbrilmente fanno la spola tra gli uffici scambiandosi mail e voci di dentro. Ma di notte. Così come è accaduto per l’ok all’avvio dei negoziati per l’ingresso dell’Ucraina, mercoledì notte. Dove, nella hall dell’Hotel Amigo di Bruxelles, roba da cinque stelle extralusso, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni si sono confrontati sul da farsi. C’eravamo tanto odiati. Adesso però s’ha da fare squadra. Perché Roma e Parigi hanno da vincere una battaglia comune. Che non è quella dell’Ucraina. Quella unisce tutti in Europa. Ma è un’altra, se possibile, ancora più sottile e impegnativa: quella del Patto di Stabilità. La madre di tutte le battaglie. Da cui discende anche l’altra, quella del bilancio pluriennale. In nome della sorellanza latina, Italia e Francia hanno deposto le armi e lavorato sodo. Una trattativa intensa. Anche perché, stavolta, Palazzo Chigi non ha la minima intenzione di mollare. Giorgia Meloni è scesa in campo personalmente e rumorosamente: come Krusciov ai tempi delle scarpe sbattute sul leggio, la premier è pronta a imporre il “niet” italiano. E il veto minacciato da Roma fa paura. Anche a Berlino.
Senza badare all’outfit, Scholz s’è scapicollato al tavolo delle sorelle latine e s’è presentato vestito di una maglietta a mezze maniche di color grigio scuro. S’è unito alla discussione. È di notte che si decidono le cose più importanti. L’Ue va avanti così. A oltranza, in una veglia continua. Assodato il sostegno a Kiev, s’è potuto iniziare a parlare d’altro. E qui non c’è stata tanta armonia. Perché il Patto di Stabilità, così come lo vogliono i tedeschi e i loro amici frugali, è una spada di Damocle pronta a precipitare sul capo del governo italiano non appena si saranno chiuse le elezioni europee. L’Italia, che ha poco da vantarsi del suo abnorme debito pubblico, rientrerebbe tra i Paesi che subito dopo l’avventura elettorale rischierebbe di ritrovarsi alle prese con l’obbligo di un aggiustamento di bilancio, costretta a dover ricalibrare il rapporto tra debito e Pil. Per il Paese sarebbe una iattura. E costringerebbe il governo, che s’è già trovato costretto a licenziare una manovra in bianco che in questi giorni inizia il suo iter parlamentare, a navigare a vista e magari a dover inasprire tassazioni e politiche fiscali. Per un governo di centrodestra sarebbe un controsenso, tanto – troppo – difficile da far digerire agli elettori. Fin qui nulla di inedito. Come non è inedita nemmeno l’idea di utilizzare la ratifica del Mes, da parte dell’Italia, per tentare di addolcire il rigore del nuovo Patto di stabilità (senza crescita) e provare ad ammorbidire la durezza dei falchi mitteleuropei. Ma c’è una novità. Di quelle grosse. E riguarda la Germania. Che, per una volta, rischia di provare lei stessa il rigore che predica e impone agli altri.
L’Italia, nonostante le fisiologiche polemiche politiche, approverà la manovra. La Germania, invece, rischia di non farcela. La Corte Costituzionale, accogliendo le proteste e i ricorsi del centrodestra all’opposizione, ha congelato il passaggio di 60 mld di euro di fondi Covid alla lotta per il clima. La somma si riferisce agli stanziamenti per il 2023 e il 2024. Il buco più rilevante è quello di quest’anno, e ammonta a 43 miliardi. Il solerte ministro alle finanze Christian Lindner, però, ha detto che il 2023 è un anno di emergenza e dunque le coperture sono state trovate. Tuttavia Lindner non ha potuto estendere lo stesso “giochino” al 2024. Così è spuntato fuori un buco da 17 miliardi di coperture che non si trovano. Non è granché su un bilancio da 450 miliardi, sia chiaro. Ma è un segnale. Pure la Germania deve tagliare. Cosa, non è ancora dato saperlo. E su questo ci si accapiglia al Bundestag. Col rischio, più che concreto, che Berlino non riesca ad approvare entro i termini stabiliti di fine anno la manovra del 2024 e sia costretta a iniziare l’anno in esercizio provvisorio. Intanto, però, l’Ucraina si avvicina all’Europa. Chissà che non si trovi la quadra anche sui altri temi sul tavolo dei tre leader nottambuli.