Attualità

Via la cittadinanza a chi inneggia al terrorismo

di Redazione -


di SOUAD SBAI

Il terrorismo di matrice islamista jihadista rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle popolazioni in tutto il mondo. Come dimostrano i recenti anni, l’Unione Europea ha subito numerosi attacchi terroristici, con alcuni paesi più colpiti di altri sull’influenza dell’espansione del fenomeno dello Stato Islamico e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi, riscontrato con massima espansione dal 2014 a tutt’oggi.

Grazie all’attività dell’intelligence italiana nell’antiterrorismo, che ha permesso di neutralizzare una minaccia interna prima che diventasse operativa e, grazie alle forze dell’ordine per aver arrestato i due uomini pakistani con l’accusa di proselitismo della jihad. Ai due pakistani arrestati a Brescia, così come a tutti quelli che inneggiano al terrorismo jihadista, andrebbe revocata la cittadinanza e il permesso di soggiorno, visto che non vogliono integrarsi e seguire la via del terrorismo jihadista.

Il fatto che siano giovani non è un’attenuante. Qualunque forma di estremismo che esalta le “fatwe”, le sentenze di morte, deve essere bloccata e perseguita, non dobbiamo assolutamente tenerci i nemici in casa. Chi fiancheggia il terrorismo va cacciato dall’Italia, non mantenuto in carcere. Perché il carcere è un luogo favorevole alla radicalizzazione visto la presenza di detenuti estremisti che svolgono attività di proselitismo per spingere altri detenuti a radicalizzarsi, questo è un male comune ai sistemi penitenziari di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Italia.

In carcere circolano testi che incitano all’odio e alla violenza, mentre possono formarsi reti di jihadisti in contatto con affiliati all’esterno per pianificare attacchi terroristici. S’impegnano nell’esercitare un’influenza sui detenuti ritenuti maggiormente malleabili, al fine di guadagnarli alle loro idee e portarli a diventare dei veri jihadisti, inserendoli nei gruppi chiusi che hanno formato e che restano isolati rispetto all’ambiente circostante. Inoltre le frustrazioni e i risentimenti, il sovraffollamento, le condizioni detentive spesso inadatte, la percezione di essere discriminati sono quei fattori che singolarmente o combinati posso determinare le condizioni personali e contestuali adatte all’innesco di processi di radicalizzazione.

I detenuti convivono in uno spazio ristretto e ciò favorisce il contatto tra gli “agenti” del proselitismo estremista e soggetti che entrano in carcere come semplici praticanti o non credenti, ma poi finiscono per essere integrati nelle reti jihadiste. Tra i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi terroristici e azioni di violenza jihadista. Vale l’esperienza francese, con i numerosi attentati di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in terroristi.

Come Adel Kermiche, il giovane che con Abdel Malik Petitjean ha sgozzato il sacerdote cattolico Jacques Hamel della chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray presso Rouen, era stato rilasciato da Fleury-Mérogis, un carcere di massima sicurezza a sud di Parigi, dove aveva trovato la sua “guida spirituale”.

Nella stessa prigione, Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto della strage del Bataclan a Parigi, accolto dai detenuti come un messia. Amedy Coulibaly, l’uomo ucciso a Parigi dopo aver preso degli ostaggi in un supermercato kosher, raccontò a un giornalista francese di essersi interessato all’Islam in prigione: il suo mentore era stato Djamel Beghal, un reclutatore di Al-Qaeda che stava scontando dieci anni di carcere per terrorismo. Nella stessa prigione, Coulibaly aveva incontrato i due fratelli Kouachi, gli attentatori di Charlie Hebdo.

La radicalizzazione in carcere e la gestione di detenuti estremisti o a rischio è una questione che investe pienamente la sicurezza nazionale e che richiede un nuovo approccio e ulteriori studi per superare le carenze sin qui manifestate, tenendo conto della grande complessità della problematica: de-radicalizzare un jihadista è un’impresa impossibile, così come integrare o re-integrare soggetti radicalizzati. L’obiettivo deve comunque essere quello di porre rimedio allo smantellamento delle politiche di sicurezza carceraria avvenuto nell’ultimo decennio.


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