Cultura & Spettacolo

Venerdì Libri – L’Antigone: il senso di una riscrittura

di Redazione -


Venerdì Libri – Recensione di “L’Antigone” di Stefano Raimondi: il senso di una riscrittura

di LAURA BRIGNOLI

L’Antigone di Raimondi è una donna del popolo, che possiede la nobiltà d’animo, la sola, vera forma di nobiltà: non quella fatta di buone maniere, o di formale rispetto di etichette che si limitano a sancire l’appartenenza a un gruppo, nel disprezzo di ciò che davvero conta. La sua nobiltà ha i connotati dell’amore, la forma e la sostanza di ciò che significa la cura, il rispetto, la considerazione. Tutte cose che pongono ai margini della polis. È questo, credo, il senso di quell’articolo posto davanti al nome che ricorda il teatro di Testori: come i personaggi del drammaturgo milanese, L’Antigone di Raimondi non è un emblema, è il marchio di una personalità, della sua interezza che la pone ai margini della legge, e quindi della società.

Antigone si situa nel mondo degli emarginati, degli inascoltati, di chi non nasce con un suo spazio nel mondo. Il mito talvolta è una prigione di senso (“Ma ora da qui non trovo che me, murata”). Certe riscritture, come questa, compiono il miracolo di abbattere quelle mura, e ciò che viene liberato è qualcosa di vivo, che parla a noi, oggi, al nostro tempo: “Voglio dirla la violenza del silenzio, dell’inazione. Guardare, a volte, è come uccidere”.
L’Antigone di Raimondi deve trovarlo il posto che le appartiene, deve ricavarselo a dispetto delle formalità. E infatti lo trova proprio nel modo contrario a quello che fanno “i malvagi, gli imbroglioni, gli ambiziosi”: dedicandosi generosamente a un atto di pietà, profondamente umano ma vietato da una legge assurda, disumana. È un atto che la pone ancora più in disparte rispetto alla società, ma non esita a compierlo, in nome dell’amore, con la certezza che solo gli Dèi sapranno capirla. L’Antigone di Raimondi è una donna che agisce per amore, pur sapendo che in cambio avrà solo emarginazione, rifiuto, scherno. E lo avrà perché osa accarezzare “la follia degli uomini”.

Chi mai lo fa? Chi, in questo mondo, non si ritrae inorridito davanti a ciò che non è conforme all’opinione comune? Ha un portato politico, questa Antigone: trasformandosi in “pietra d’inciampo, memoria”, oppone l’amore all’apatia di chi sta a guardare, ma senza vedere davvero. E ciò che gli altri non vedono non sono solo i morti ammazzati: non vedono neppure lei, che è soprattutto una donna pronta a rivendicare la sua femminilità, a urlare il suo desiderio. Raimondi ci fa precipitare dentro al corpo di Antigone. È una discesa che dà le vertigini se vista dall’alto, dalla soglia, ma ancora di più se si assume la prospettiva del mito. Perché al contempo si capisce che quella soglia è la piattezza dell’inconsistenza e che il senso, il senso ruvido, scosceso, intenso della vita è laggiù, in quella profondità, nelle pieghe di quella caverna in cui si stratificano le tante versioni di questo mito, e da cui scaturisce qui, ora, il fremito dell’esistere.
Essere un poeta significa infondere vita, opponendo all’inesorabile pietrificazione del mondo non solo la leggerezza, come diceva Calvino, ma l’intensità. Stefano Raimondi è un poeta.


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