Una pizza con Hamas e quell’Italia facilona
PAROLA MIA – Una pizza con Hamas e quell’Italia facilona
di FRANCESCA ALBERGOTTI
Sabato mattina, mercato settimanale di una piccola città nel cuore della Toscana. Fila di fronte al banco della vendita di porchetta, a fianco un ambulante che vende calzature comode che si distrae e saluta un conoscente passato da lì. Dopo i convenevoli i due si tuffano in una serie di commenti relativi ai fatti della settimana. “Eh, la ragione non è mai da una parte sola”, “devono smettere, alla fine qui si salta tutti per aria”. Esaurite le ovvietà il mercante di scarpe viene inaspettatamente investito da un lampo di originalità e a voce un po’ più bassa rivela “comunque, sia come sia, quando ci son ’loro’ di mezzo saltan sempre fuori i casini”. Il passante annuisce “ah davvero, proprio ragione, son sempre ’loro’”. Domenica sera, pizza da asporto con famiglia e amici a casa. Nessuno accende la tv per non correre il rischio di essere profanati nella nostra “confort zone” dalle terribili sequenze di guerra, ma alla fine non riusciamo a evitare di parlarne.
La conversazione parte leggera “Pensa che gli israeliani fanno 36 mesi di servizio militare obbligatorio e che tanti son partiti da tutto il mondo per arruolarsi, pazzesco eh?”. “Ah, io non partirei”. “Io sì, subito”. “D’altra parte quando Roosvelt nel 1948 comunicò al re saudita la creazione dello stato di Israele nei territori palestinesi il re lo guardò sconcertato”. “Beh, è come se domani a noi ci dicessero ’via di qui, trasferitevi in Umbria’. Per un superbo toscano solo l’idea di spartire un pedone d’ulivo con i confinanti sempliciotti e pretaioli è assolutamente orripilante. “Va beh, non è proprio la stessa cosa, ’loro’ venivano da lì, magari avevano diritto ad avere un paese dove potersi sentire al sicuro”. “Si, ma secondo te perché ’loro’ son tutti così ricchi?” La domanda è rivolta a me, che fino ad allora ho preferito mangiare in silenzio. Non so bene come rispondere, mi limito a dire che non è vero che sono tutti ricchi, ma è una difesa debole. “Quelli che conosco io sono ricchissimi”. Aspetto solo che qualcuno salti fuori con la storia dell’avarizia e del naso grosso, per fortuna non succede. “È tutta una questione religiosa”. Che c’entra la religione? La mia epiglottide è ormai bloccata. Mi ritrovo in preda alla famigerata sensazione dell’”odio di sé” la categoria psicoanalitica tanto utilizzata dal mondo letterale ebraico, da Roth a Oz passando per Svevo e Singer, quel sentimento di inadeguatezza dovuto al sentirsi sempre un po’ diversi dagli altri e alla ricerca di un’ordinaria normalità.
Con la pizza lasciata a metà, saluto tutti e vado a letto. Fatico ad addormentarmi, accendo la televisione e catturo l’immagine della protesta a Times Square dove si fronteggiano le bandiere di Israele e una collezione di kefiah. Nella parte parte pro-palestina ci sono molti “wasp” che indossano la kefiah come fosse una pashmina, le donne bionde e gli uomini pallidi. Devono essere i brillantissimi, viziatissimi studenti delle maggiori università americane, quelle con rette che arrivano fino a 100.000 dollari all’anno. I promettenti studenti sono gli stessi che rifiutano di utilizzare i bagni dell’università se non vengono aggiunti anche quelli “no gender”. Quelli che si sono indignati contro un brand di abbigliamento che aveva messo in vetrina scimmie e liane ispirazione “Africa” per “appropriazione culturale”. Sono quelli che attraverso una lettera pubblica hanno legittimato il terrorismo di Hamas considerandolo una storica controffensiva. Dev’essere stato proprio eccitante scrivere, accoccolati nella morbida poltrona della biblioteca, sull’Ipad di ultima generazione l’implacabile condanna contro Israele, l’unico stato democratico dell’intero Medio Oriente, come unico responsabile per la violenza. Le autorità accademiche hanno diramato un comunicato ponziopilatico, “il testo non esprime la posizione ufficiale dell’ateneo”. E quale sarebbe la posizione ufficiale allora? D’altra parte, anche il bacino di potenziali matricole di “rich jewes families” non va affatto sottovalutato.
La libertà di espressione, il diritto al dissenso che passa anche attraverso una feroce autocritica al nostro sistema, evidenziare gli errori e le atrocità commessi, l’analisi ai tanti limiti di una società imperfetta è una conquista spettacolare che il mondo occidentale si è guadagnato. Non è un dono, è un frutto che gronda sangue e lacrime e come tutte le cose preziose, conquistate, va curato e difeso. Abbiamo il dovere di salvaguardare questo mondo meravigliosamente difettoso per poter continuare a criticarlo senza sconti, farlo a pezzi e sezionarlo, magari provare a migliorarlo e mantenere l’inviolabile libertà di esprimere le nostre opinioni anche quando paradossali. Ma anche mantenere viva e vibrante la compassione per chi ci assomiglia, non solo per chi è diverso. Se non siamo pronti a pagare quel conto il rischio sarà che invece di poter scegliere di andare a urinare in un “no gender toilet” saremo chiamati a nascondere non solo i nostri capelli ma anche i nostri pensieri sotto un velo molto, molto pesante.
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