Sport

UN CALCIO ALLA GUERRA

di Marcel Vulpis -


“Nonostante tutto bisogna giocare”. Potrebbe essere sintetizzata così la politica del ministro dello sport ucraino, che, a sorpresa, la scorsa estate (dopo più di 180 giorni di stop), ha annunciato la ripartenza del campionato (seppure a porte chiuse e senza pubblico). Anche in Ucraina infatti il calcio è vissuto come un ammortizzatore sociale, ovvero come un elemento (positivo) di distrazione per una popolazione che sta vivendo, da oltre un anno, il dolore senza fine dell’invasione russa. Il conflitto, esploso nel febbraio 2022, ha portato inevitabilmente, in una prima fase, ad una chiusura forzata degli stadi e dello sport in generale. I proclami trionfalistici del presidente russo Vladimir Putin, sicuro, all’inizio della guerra, di prendere Kiev in meno di 4 giorni, avevano imposto una certa prudenza e certamente il calcio, in quelle settimane frenetiche, non era una priorità dell’esecutivo di Zelensky. Da lì l’idea di fermare la stagione sportiva, cristallizzando la classifica (al momento dell’invasione lo Shakhtar era davanti alla Dynamo Kiev e al Dnipro-1). Inoltre si era scelto di non assegnare il titolo nazionale per ragioni di opportunità, oltre che di equità calcistica (mancando molte giornate al termine della stagione).
Si riparte con bunker e postazioni antiaeree. Adesso si è entrati in una seconda fase che prevede stop temporanei (anche di diverse ore) in caso di allarmi aerei, postazioni antiaree mobili a difesa delle strutture sportive e rifugi ricavati all’interno degli impianti di gioco. La precarietà regna sovrana, ma il campionato 2022/23 è partito regolarmente. Dopo 20 giornate al 1° posto della classifica provvisoria troviamo lo Shakhtar Donetsk, top club del calcio ucraino e squadra di riferimento della regione del Donbass, da cui è fuggito, nel 2014, dopo i primi bombardamenti (uno di questi ha reso inagibile la moderna Donbass Arena inaugurata appena 5 anni prima). Attualmente la squadra si allena e gioca a Kiev.
Nel primo campionato, ai tempi della guerra russo-ucraina, metà delle 16 squadre della Prem’’jer Liha (l’equivalente della Serie A italiana) hanno giocato i match ufficiali lontani dall’impianto casalingo, ma già in questa nuova stagione solo i club del Donbass (per esempio, in prima divisione, troviamo lo stesso Shakhtar) sono stati obbligati a trasferirsi in altre città, lontano pertanto dalle loro tifoserie. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, pur avendo fatto ripartire il campionato (su espressa richiesta del presidente della Federcalcio, l’oligarca della chimica Andriy Pavelko), è stato molto severo e rigoroso: nessun club infatti ha ottenuto il via libera per giocare in Polonia (come inizialmente avevano chiesto i top team) anche perché nessun uomo, in età di leva, è stato autorizzato a lasciare il Paese, ad eccezione dei calciatori impegnati nelle Coppe europee (con l’obbligo di ritornare in patria al termine delle gare). All’inizio si era pensato di giocare solo a Kiev, nella capitale, oltre che a Leopoli (città dell’Ucraina occidentale, ad appena 70 km dal confine polacco), ma, in un secondo momento la Federcalcio, ha accettato di far organizzare le gare ufficiali negli stadi di appartenenza, ad eccezione della città di Charkiv (sede dell’FC Metalist e del Metalist 1925), perché troppo vicina al confine russo.
Alle radici del conflitto: tutto è partito nel 2014. La crisi tra Russia e Ucraina non è scoppiata all’improvviso, come ha correttamente sottolineato, di recente, in una sua indagine, l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionali). Il contrasto infatti dura apertamente da più di otto anni: ovvero da quando, nel 2014, dopo la Rivoluzione di “Euromaidan” (una serie di manifestazioni filoeuropee iniziate in Ucraiana nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013), culminata con la cacciata dell’allora presidente Viktor Janukovyč, Mosca ha scelto di invadere e annettere la penisola di Crimea sostenendo, di fatto, i movimenti “separatisti” nella regione del Donbass (in Ucraina orientale). Quello che stava avvenendo in questi territori era, pertanto, ben visibile da tempo, peccato però che la stragrande maggioranza dei media internazionali (inclusi quelli italiani) ha preferito non sempre raccontare ciò che stava avvenendo. Il resto è cronaca (purtroppo non sportiva).

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