Attualità

Uccisa e fatta sparire in Svezia: l’ergastolo in Italia all’amico

di Ivano Tolettini -


La giustizia italiana supplisce alle lacune di quella svedese e dopo 29 anni attribuisce la responsabilità dell’uccisione di una 21enne di origini irachene, Sergonia Dankha (nella foto), avvenuta in Scandinavia a Linkaping, all’amante Salvatore Aldobrandi, pizzaiolo oggi 75enne, e lo condanna all’ergastolo. A questa decisione è pervenuta la Corte d’Assise di Imperia che ha ritenuto Aldobrandi, un passato burrascoso per una sospetta violenza sessuale nei confronti di una sua cameriera e maltrattamenti all’ex compagna svedese, padre di 8 figli avute da tre donne diverse in Svezia e Italia, il killer di Sergonia, sparita nel nulla il 13 novembre 1995. Le autorità svedesi avevano sempre sospettato che il pizzaiolo di origini calabresi fosse il potenziale assassino, anche perché sulla vettura dell’ex moglie di Aldobrandi erano state rinvenute tracce di sangue della vittima, così come il Dna della ragazza fu trovato a casa sua e sulla sua giacca – tutti elementi che facevano ricondurre alla poveretta -, ma poiché il corpo non era mai stato rinvenuto, la giustizia svedese aveva dovuto alzare le mani declinando la propria impotenza procedurale per l’assenza della salma. Ed ecco che a supplire a questo vuoto è stata la magistratura italiana, in particolare quella di Imperia, che ha messo sotto processo Aldobrandi che da anni si era stabilito a Sanremo dove conduceva la sua professione fino al 2023, quando fu arrestato il 17 giugno dal tribunale ligure su richiesta dei Pm Maria Paola Marrali e Matteo Gobbi, titolari della complessa indagine. A innescarla era stato lo studio legale Morri Rossetti, che su incarico dei familiari di Sargonia si era rivolto all’investigatore Tommaso Luciano Ponzi, il quale era risalito a dove risiedesse Aldobrandi e aveva sollecitato la Procura di Imperia a supplire all’inazione scandinava, nonostante a loro avviso gli indizi fossero importanti. Certo è che per quasi trent’anni il “cold case” è rimasto tale nell’archivio della polizia svedese, fino a quando la parte civile non ha chiesto copia dei documenti per preparare un dossier che, sotto forma di esposto, è stato consegnato alla Procura della Repubblica di Imperia per dare il la alle indagini. Nel corso della requisitoria la Pm Marrali ha spiegato il movente. “Siamo di fronte a un femminicidio – ha detto -, come gesto estremo di controllo, possesso e gelosia nei confronti della ragazza. C’era l’incapacità di Aldobrandi di accettare la decisione di Sargonia di porre fine alla loro relazione che fin dall’inizio era stata di violenza, minaccia grave e aggressione”. La Pm ah aggiunto che “in Svezia non si è proceduto non per carenza di indizi, ma per la mancanza del corpo e di testimoni diretti dell’omicidio”. I magistrati hanno ricordato altri casi in Italia con condanna del killer pur in assenza del corpo della vittima, come la vicenda di Roberta Ragusa per il quale il marito Antonio Logli è stato arrestato e condannato, oppure quella della professoressa di Valdagno, Francesca Benetti, uccisa e fatta sparire da Antonino Bilella, cui è stato inflitto l’ergastolo dalla Corte d’Assise di Grosseto. In Scandinavia le indagini erano cominciate come una presunta scomparsa volontaria di Sargonia. “Non si era partiti con l’omicidio – hanno affermato i Pm – perché si sono valutate tutta una serie di possibilità per arrivare all’evidenza che Sargonia era stata assassinata. La ragazza non aveva mai detto a nessuno che voleva allontanarsi. Forse nascondeva qualcosa ai genitori, come fanno tutti i ragazzi di quell’età, ma agli amici raccontava tutto, e mai a nessuno ha detto di volersi allontanare. Ha solo detto alla sua amica: «Vorrei non avere più Salvatore tra i piedi»”. Insomma, per i magistrati non c’erano piste alternative all’uccisione di Sargonia da parte di Aldobrandi, che all’epoca aveva 46 anni, come i numerosi indizi lasciavano presagire e che in aula si sono composti in prove che dalla giuria popolare sono state ritenute univoche e coincidenti ogni oltre ragionevole dubbio. “Siamo grati all’Italia e alla magistratura – ha affermato Shabo Ghriba, madre di Sargonia – per averci reso giustizia”.


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