Economia

Tutti gli uomini di Kkr, chi c’è dietro il fondo che ha comprato la rete Tim

di Cristiana Flaminio -


Due cugini, un mentore e 120mila dollari di budget: così è nato, nell’ormai lontano 1976, il fondo Kkr, gigante dell’alta finanza che oggi gestisce asset per 500 miliardi di euro e si prepara, Vivendi permettendo, ad aggiungere un nuovo gioiello alla sua collezione: la rete Tim, acquistata a 22 miliardi di euro, dopo l’ok arrivato dal Cda nella seduta di domenica scorsa.

Kkr è l’acronimo dei tre fondatori del fondo. Jerome Kohlberg, Henry Kravis e George Roberts. Kravis e Roberts sono cugini, sono cresciuti insieme e da buoni fratelli hanno diviso, insieme alla stanza al Claremont McKenna College, anche l’ufficio alla Bear Sterns, una delle più grandi banche d’affari fino a che non fu travolta dall’affaire JpMorgan. Lavorano alla divisione finanziaria, il loro capo è Jerome Kohlberg. I tre vanno così d’accordo da decidere di mettersi in proprio. Il capitale iniziale è di 120mila dollari del ’76. Il primo buyout è quello di Aj Industries, che risale allo stesso anno.

La strada è chiara da subito e si specializzano in leveraged buyout, cioè nell’acquisto di imprese, società e asset prendendo soldi a prestito. Gli anni ’80 rappresentano un periodo di crescita importante per Kkr che, nell’89, piazza il primo colpo da record. Che vale ai cugini Kravis e Roberts (nel frattempo Kohlberg li ha salutati in disaccordo con il loro approccio all’attività finanziaria) la nomea di “barbari”. Acquistano la Rjr Nabisco, società nata dalla fusione tra un’impresa di tabacco e un’altra di pasticceria, per uno sproposito: 24,88 miliardi del 1989. Lo fanno alla fine di quaranta giorni trascorsi pericolosamente, tra intrighi, rilanci in borsa e colpi bassi che coinvolgono tutta Wall Street. Già, perché i due cugini avevano affiancato F. Ross Johnson salvo poi dover incassare il voltafaccia da parte dello stesso Johnson che, invece, preferì seguire Ted Forstmann e la banca Shearson Lehmann Hutton. Kkr se la legò al dito e lanciò l’asta. Finì che i due cugini pagarono Rjr Nabisco a 109 dollari ad azione, titoli che prima della querelle, valevano poco meno della metà, 56 dollari. Alla fine, per Kkr, quell’acquisizione fu un mezzo flop. Ma intanto si erano imposti all’attenzione del mondo finanziario americano. E, di conseguenza, sul panorama mondiale. Nel 1996, infatti, Kkr sbarca in Europa; nove anni dopo, nel 2005, il fondo si espande in Asia e apre filiali a Tokyo e Hong Kong.

Tutto è pronto per “battere” il record dell’89. E così Kkr, nel 2007, si svena per acquistare Txu, Texas Utilities, tra i maggiori fornitori di elettricità al dettaglio sul mercato Usa. L’affare si muove su cifre da sballo: 45 miliardi di dollari. È si impone come il più grande buyout della storia.

Con l’acquisto di Txu, Kkr inizia a darsi una veste green-friendly, investe in Esg e stringe alleanze con le no-profit a vocazione ambientalista. Ma gli affari restano affari. In Italia, Kkr “esordisce” con l’acquisto di Selenia, la nota azienda di lubrificanti per motori. È un’operazione pulita: la comprano, nel 2005, a 835 milioni e la rivendono, due anni dopo, a un miliardo di euro al colosso Petronas. Ma non è tutto rose e fiori. Kkr, infatti, ha acquisito nel 2018 la Magneti Marelli ma nel 2022 ha dovuto, contrariamente a quanto predicato negli anni passati, procedere a un piano di ristrutturazione aziendale a fronte di un debito clamoroso, pari a 7,9 miliardi. La vicenda ha avuto, e continua ad avere, strascichi polemici con i sindacati sulle barricate, a combattere contro la chiusura degli stabilimenti. Quello di Crevalcore, per esempio, che poi (almeno per ora) si è salvato. Oggi, o meglio dal 2021, i due cugini non guidano più Kkr. Hanno individuato i loro successori in Scott Nuttall e Joseph Bae. La cosa che accomuna tutti e quattro è il conto in banca: sono tutti miliardari. In dollari, ça va sans dire.


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