Economia

In ginocchio da Trump, perché la Silicon Valley ha scelto The Don

di Giovanni Vasso -

DONALD TRUMP PRESIDENTE USA


In ginocchio da Trump: da ogni parte degli States, da ogni fabbrichetta della Silicon Valley, i Ceo arrivano in processione a Mar-a-Lago dove attendono di essere ricevuti dal presidente eletto. Che, da impresentabile è diventato taumaturgico. Tutti, ma proprio tutti, si sono recati in pellegrinaggio in Florida. A dimostrazione del fatto che i poteri forti, poi, tanto forti non sono. O, per dirla meglio, non si sentano più così tronfi da staccare il microfono e da spegnere i profili social. Fanno autocritica, i capataz dell’economia globale. Manco ai tempi dello stalinismo o del maoismo, i potenti mezzi dei social sfidano la critica e pure il senso del ridicolo. E così Mark Zuckerberg, come una reincarnazione di Chiara Ferragni con più acume (e consulenti d’immagine furbi al punto da lasciargli al polso un orologino da 900mila dollari), annuncia che il tempo dei fact-checkers su Facebook è finito. Da oggi, o meglio dall’altro ieri, in poi ci saranno solo le “note”. Che è un po’ lo stesso sistema che utilizza Elon Musk su X. “Si torna alle origini, non vediamo l’ora”, ha detto Zuckerberg raggiante di quel pentimento sorridente che si può permettere solo chi spera di riconquistare un posto al sole. Tramontati i dem e archiviato Biden, spernacchiato dallo stesso Zuck che ha riferito delle “pressioni” per tacere le notizie sull’origine del Covid e dei disastri del figlio Hunter, ora c’è da far pace con Trump. Che, dopo aver minacciato di arrestarlo, adesso accetta pubblicamente il pentimento del Ceo prodigo.

Meta non è l’unica azienda a fare ammenda. C’è pure Amazon, o meglio c’è Jeff Bezos. Che, anni fa, s’è comprato un giornale, il Washington Post. Che voleva fare un endorsement pro Kamala, prontamente stoppato. Come la vignetta proposta da Ann Talneas, già Premio Pulitzer, che ritraeva lui, Bezos, e gli altri padroni del vapore digitale prostrarsi, con in mano offerte in sacchi di dollari, a Donald Trump, novello idolo pagano degli (ex) illuminati imprenditori della Silicon Valley. Ecco, appunto. La Silicon Valley, già feudo democratico, s’è convertita in massa al credo trumpista. Certo, le relazioni contano e la presenza al fianco del tycoon di Elon Ottimo e Massimo, ha pesato, eccome. Perché Musk sa benissimo cosa vogliono i suoi colleghi. E Donald sa perfettamente che la frontiera digitale è l’ultima spiaggia della primazia internazionale degli Stati Uniti. Quindi le ragioni dell’improvviso innamoramento di Zuck, Bezos e degli altri nerd per Donald non è solo il timore di finire bersaglio delle critiche dell’opinione pubblica ma vanno rintracciate negli affari. Economici e politici. Ed è per questo che Donald Trump ha annunciato investimenti per ben venti miliardi di dollari in data center. Grazie all’alleanza con la Damac, società immobiliare di stanza a Dubai e riferibile a Hussan Sajwani, un uomo che da solo vale 2,7 miliardi di dollari, saranno allestite infrastrutture a sostegno delle piattaforme digitali di cloud e Ai in diversi Stati tra cui Texas, Arizona, Oklahoma, Ohio, Illinois, Louisiana, Michigan e Indiana. Ma non è tutto: perché Trump ha promesso importanti sgravi fiscali ed esenzioni dai vincoli della burocrazia green a favore di quelle aziende pronte a investire più di un miliardo di dollari negli Stati Uniti. Scatenando l’entusiasmo generale dei suoi (ex) acerrimi rivali. Che adesso lo vedono come l’Uomo della Provvidenza. A cui, peraltro, sarà demandato un altro e importante compito. Ossia quello di mettere a posto quegli indisponenti degli europei che, senza uno straccio di centralità né in termini di giganti digitali né di materie prime o know how, si permettono il lusso di imporre regolamenti come, su tutti, il Digital services act che limitano e non poco le iniziative e la libertà (o arbitrio?) delle major digitali nel Vecchio Continente punendole con l’unica modalità davvero efficace per chi spende miliardi come noccioline: multe stabilite in base al fatturato delle aziende a fronte delle diverse contestazioni ed eventuali violazioni. A cominciare proprio dal possesso e dallo stoccaggio di dati che Bruxelles non vuole avvenga, per quelli riferibili ai cittadini Ue, in territorio americano. Perciò Musk attacca la vecchia e traballante Unione e gli altri, pian pianino, gli vanno dietro. A cominciare dallo stesso Zuckerberg, che accusa l’Ue di voler praticare la censura. Il guaio è che qualche portavoce ci prova pure a rispondergli: “Abbiamo una legislazione in vigore e ci assicureremo che le aziende che offrono servizi nell’Ue siano in regola”, ha dichiarato il signor Thomas Regnier, che lavora al dipartimento per la sovranità digitale, e che ha ricordato come l’Europa abbia contenziosi aperti “contro X, Meta, Aliexpress e Tiktok”. Appunto. In ginocchio da Trump, poi, ci sono andati anche i padroni della farmaceutica, a cominciare da Albert Bourla, già pezzo grossissimo di Pfizer coinvolto nel caso dei messaggini scambiati con Ursula von der Leyen. Di cui, per ovvie ragioni, si parla meno. Chissà perché.


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