epa11841010 US President Donald Trump (L) dances with his wife Melania Trump during the Commander-in-Chief Ball in Washington, DC, USA, 20 January 2025. Earlier Trump was sworn in for a second term as president of the United States in the rotunda of the US Capitol, though the ceremonies and events surrounding the presidential inauguration were moved indoors due to extreme cold temperatures. EPA/ANNA MONEYMAKER / POOL
Gli Usa aprono, la Casa Bianca pensa di ridurre fino a due terzi gli attuali dazi a Pechino, la Cina “spalanca le porte” e l’Europa stanga Big Tech per dare un segnale di forza a Trump. In mezzo i festeggiamenti delle Borse di tutta Europa che brindano all’apertura giunta dal presidente Usa su due fronti, delicatissimi, a cui i mercati evidentemente tengono molto. Da un lato la promessa di abbassare i dazi a Pechino, dall’altra quella di non far perdere il lavoro a Jerome Powell, tignoso governatore della Fed che non si decide ancora ad abbassare i tassi di interesse negli States. The Don ha inaugurato la giornata dicendo che, con la Cina, prima o poi “faremo un accordo”. “Sarò gentile, loro saranno molto gentili, ma alla fine dovranno fare un accordo o non faranno affari negli Stati Uniti”, ha spiegato Trump. Che ha ribadito. “Siamo noi a stabilire l’accordo, sarà equilibrato per tutto. È un processo che andrà avanti velocemente. Stiamo andando bene con la Cina e con qualsiasi altro paese che voglia avere a che fare con gli Stati Uniti”. I dazi all’export cinese caleranno ma resteranno, questo è poco ma sicuro: “Il 145% è molto alto e non sarà così alto” ha detto Trump in una sessione di domande e risposte con i giornalisti nello Studio Ovale: “Non sarà nemmeno lontanamente così alto. Scenderà sostanzialmente. Ma non sarà zero”. Pare, almeno secondo il Wall Street Journal, che l’idea di Trump sia quella di tagliare le tariffe al 50-60%. Un bello sconto. In teoria. Nella pratica, un modo dolce per far ingoiare a Pechino la pillola amara dei dazi. La Cina, comunque, apprezza ma non si fida. Dall’Azerbaigian, dove si trovava in visita di Stato, il presidente Xi ha ribadito l’idea che “i dazi danneggiano il commercio multilaterale e indeboliscono il sistema basato sull’Onu e il diritto internazionale oltre a destabilizzare l’ordine economico mondiale”. Se l’invito fosse davvero valido, cosa di cui evidentemente in Asia dubitano, “la porta per i colloqui è spalancata”, come ha affermato Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Esteri cinese. Che, però, ha avvisato: “La nostra posizione è chiara: non vogliamo combattere, ma non abbiamo paura di farlo. Se necessario, combatteremo fino in fondo; se possibile, siamo pronti al dialogo a porte spalancate”. Insomma, Pechino non è disposta a tutto purché si faccia la pace. E, per rafforzare la sua posizione, la Cina “chiama” Bruxelles, o meglio Vienna. In una telefonata tra il ministro degli Esteri asiatico Wang Yi e l’omologa austriaca Beate Meinl-Reisinger è emerso l’invito cinese: “Gli Stati uniti hanno imposto arbitrariamente dazi ad altri Paesi, minando gravemente le regole e l’ordine del commercio internazionale. Queste azioni sono tipici atti di unilateralismo, protezionismo e intimidazione economica, come pilastri e mercati fondamentali dell’economia globale, Cina e Ue devono farsi carico delle loro responsabilità internazionali, difendere congiuntamente il sistema commerciale multilaterale e collaborare per costruire un’economia mondiale aperta”. Come a dire: occhio che Bruxelles non si può smarcare dal Dragone così facilmente. Al di là della logistica, delle supply chain green, emerge – da un report dell’istituto di statistica tedesco Destatis – un altro punto economico dolente da cui l’Ue dipende da Pechino. Ossia le terre rare. In attesa che i giacimenti carichi di minerali e materiali critici annunciati negli anni scorsi da una fin troppo entusiasta Ursula von der Leyen inizino davvero a produrre qualcosa, Pechino è il primo fornitore di terre rare di tutta l’Europa: da sola “occupa” il 46% del mercato. Una quota che diventa schiacciante se si prende in considerazione solo la Germania: 65,5%. Al secondo posto c’è l’impraticabile Russia (che detiene il 28,4% del mercato) e poi la Malesia. Ma la notizia che ha davvero cambiato la giornata è arrivata dall’Antitrust Ue. Che, proprio mentre il clima andava un po’ rasserenandosi e mentre si brigava per far sì che Trump e Ursula iniziassero a parlarsi, magari ai funerali del Papa sabato a Roma, è arrivata la stangata per Big Tech. Settecento milioni tondi tondi, mezzo miliardo per Apple, 200 milioni per Meta. Da pagare entro sessanta giorni. Al centro delle sanzioni il “consenso negato” agli utenti a cui sarebbe stato imposta la scelta tra pagare o concedere l’utilizzo dei propri dati alle major digitali, in violazione del Dma. La potentissima Teresa Ribera, vice-presidente della Commissione socialista, ha tuonato: “Oggi arriva un messaggio forte e chiaro: Apple e Meta non hanno rispettato il Digital Markets Act attuando misure che rafforzano la dipendenza degli utenti commerciali e dei consumatori dalle loro piattaforme. Di conseguenza, abbiamo adottato misure di esecuzione ferme ma equilibrate nei confronti di entrambe le società, sulla base di norme chiare e prevedibili: tutte le società che operano nell’ Ue devono rispettare le nostre leggi e i valori europei”. Al tuono è seguito il pigolìo. Già perché il “messaggio forte e chiaro”, forse, a Washington è risuonato con fin troppa forza. E allora l’euroburocrazia ha mandato avanti la vice-portavoce-capo della Commissione, Arianna Podestà, a dire che “le multe inflitte a Apple e Meta non sono legate ai dazi né devono essere materia di negoziato”. Chissà se pure Trump la pensa così. Intanto i mercati hanno festeggiato. Il segno più domina in Asia e in Europa. Milano recupera l’1,5%, Francoforte accelera a +3,4%, bene Parigi (+2,55%), sprintano Londra e Madrid (rispettivamente +1,6% e +1,16%). Ma il party vero è a Wall Street dove il Dow Jones apre guadagnando il 2,5% e il Nasdaq vola a +4%. Il dollaro riprende quota (adesso vale 0,88 euro) mentre l’oro cala sotto i 3300 dollari l’oncia (ne vale 3.291). Giù il petrolio che rimane stabilmente sotto i 63 dollari (62,61) portandosi dietro anche il gas (33,98 euro al Mwh per un calo dello 0,77%).