Politica

Menia: “Nella storia di Trieste, il futuro dell’Italia”

di Giovanni Vasso -


Trieste si prepara a celebrare il 70simo anniversario del ritorno all’Italia. Dopo la seconda guerra mondiale, la città simbolo (con Trento) del Risorgimento compiuto dopo la Grande Guerra non era più territorio italiano. Una pagina drammatica della storia recente del Paese su cui è calata una sorta di oblio. Ma che va ricordata perché, come spiega a L’identità il senatore Roberto Menia: “Non c’è futuro senza fare, sul serio, i conti con la propria storia”.

Trieste fuori dall’Italia, dirlo oggi appare una follia…

“Per noi che siamo di là, la vicenda storica e simbolica di Trieste parte da lontano, dalla Grande Guerra che per noi è stata la quarta, e ultima, guerra d’indipendenza. Ma sono le vicende della seconda guerra mondiale che apriranno una fase drammatica iniziata l’8 settembre ’43. Prima l’occupazione nazista e l’istituzione della zona di operazioni litorale Adriatico. Poi quella titina, che la dichiara, insieme a Gorizia nel 1945, parte della Repubblica Jugoslava. Quindi la creazione, nel ’47, delle Zone A e B. La prima, con Trieste, avrebbe dovuto formare uno Staterello affidato alla momentanea amministrazione degli inglesi. La seconda sarà affidata a Belgrado e gli jugoslavi di lì non andranno mai via. È proprio in quegli anni che Trieste ritornerà a essere ciò che era stata nel mito irredentistico: in tutta Italia i giovani scendono in piazza col tricolore, Nilla Pizzi vince il Festival di Sanremo cantando Vola Colomba, portando il saluto dell’Italia agli altri italiani divisi da un ingiusto confine. Persino il calcio fece la sua parte con la Triestina ammessa in Serie A e costretta a giocare a Udine in campo neutro, capace di arrivar seconda, dietro solo all’inarrivabile Grande Torino sotto la guida di Nereo Rocco”.

Vicende che non riguardarono solo Trieste.

“C’era Pola, con la sua grande arena, più antica del Colosseo; c’erano Zara e Fiume. La seconda guerra mondiale, per noi, vuol dire la perdita di quei territori e, con essi, di una lunghissima tradizione di presenza, di lingua e cultura italiana”.

Come reagì la città?

“Si rivoltò, in nome del tricolore. Il 4 novembre ’53. Quella protesta costò la vita a sei ragazzi. Furono come gli ultimi martiri del Risorgimento. Un anno dopo arrivò il memorandum di Londra con cui si decise di restituire Trieste all’Italia, pochi giorni prima del 4 novembre. Fu l’epilogo di una storia che, per chi viene da quelle parti, come me e per chi vive un profondo sentimento di identità e appartenenza patriottica è dolce e bella. Conservo ancora, gelosamente, il tricolore che mia madre, ragazza, sventolava per le strade della città chiedendo che Trieste tornasse italiana mentre la travolgevano i cavalli degli inglesi”.

Oggi fioccano narrazioni diverse e divergenti come quella sull’Austria felix..

“Nessuno nega la storia, così come nessuno può negare che la grandezza di Trieste nasce con Maria Teresa d’Austria che ne fece il porto franco dell’Impero. Eppure basta dare una scorsa ai nomi dell’irredentismo triestino, alle medaglie d’oro della Grande Guerra. Nomi slavi, ebrei, greci: tutti uniti dalla scelta, di cuore, di essere italiani. Perché l’italianità a Trieste fu in grado di unire e fondere, grazie al la mediazione della tolleranza della latinità, popoli diversi. Dopodiché, raccontare che Trieste abbia perso tutto con il passaggio all’Italia è falso. Quella centralità, che deriva dal ritrovarsi sull’Adriatico e quindi sul Mediterraneo e di essere a un tiro di schioppo da Budapest, Vienna, Praga e Monaco, s’è ritrovata dopo la caduta del Muro di Berlino e riconfermata dagli scenari attuali. E se s’era perduta, ciò accadde con la fine della seconda guerra mondiale”.

Come mai?

“Trieste si trovò, prima ancora che nascesse anche soltanto l’espressione “mondo libero”, a esserne l’ultimo baluardo. Di là, c’erano i regimi comunisti, la cortina di ferro. Ricordo, da bambino, che le autostrade erano praticamente deserte dopo Venezia. Le percorreva soltanto chi doveva andarci. Eravamo la periferia estrema del mondo”.

Trieste simbolo di ciò che vogliamo essere e di ciò che non vogliamo più essere…

“Bisogna avere il coraggio di fare i conti con la propria storia. Trieste diventa capitale morale dell’esodo istriano mica per caso: lì, a Padriciano, fu allestito il campo profughi attraverso cui passarono più di 80mila connazionali in fuga da Istria a Dalmazia; poco distante, c’è oggi la foiba di Basovizza che testimonia la storia terribile di quegli anni. Fare i conti con la propria storia non è rivendicazionismo ma un passo fondamentale per immaginare e concretizzare il proprio futuro. E credo che vada ritrovato lo slancio imprenditoriale, creativo e culturale nell’area. Occorre tornare a recitare, in un clima di collaborazione coi Paesi vicini e nell’ottica della collaborazione europea, un ruolo che riporti l’italianità al centro riaprendo scuole e centri culturali. Insomma, continuare a fare la nostra parte di italiani e di europei”.


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