Trapianti, Friuli da record “Dopo il Covid l’Italia riparte”
A trent’anni dal primo trapianto renale del centro Trapianti del Friuli-Venezia Giulia, oggi a Udine si tiene il convegno per ripercorrere le tappe fondamentali del trapianto di rene e per porre gli obiettivi futuri e di ricerca. A parlarcene, il direttore del centro trapianti, il professore Andrea Risaliti e il dottor Giuliano Boscutti, direttore del dipartimento di nefrologia e dialisi dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale.
Possiamo fare un bilancio?
Prima che tutto iniziasse, tra il 1973 e 1993, in vent’anni, il centro ha seguito in totale 50 pazienti che erano stati trapiantati altrove, in larga parte tra Treviso e Verona e altri all’estero. Tutti giovanissimi, con età media intorno ai 30 anni e selezionati. Poi, nel 1993 inizia l’attività del centro e nella decade fino al 2003 vi è stato un consolidamento della struttura e sono stati eseguiti trecento trapianti in dieci anni. Nei dieci anni ancora successivi, 2003-2013, c’è stato ancora un fiorire di iniziative dal punto di vista chirurgico, per cui sono iniziati una serie di trapianti combinati anche complessi, salendo fino a 40 trapianti all’anno. Nell’ultima decade 2013-2023, abbiamo un nuovo movimento che sta diventando importante, quello dei trapianti pre-emptive, ovvero quella tipologia per cui non si passa per il trattamento dialitico, arrivando a una media di 50 trapianti all’anno.
Com’era la situazione in Italia?
Noi abbiamo cominciato nei primi anni ‘90, ma l’attività trapiantologia non era nata troppo prima, c’erano già all’epoca centri operativi per il trapianto di rene. I pazienti nefropatici erano costretti alla dialisi e prima, tra gli anni ‘60 e ‘70 questa non esisteva in gran parte dei centri, con il paziente che spesso era costretto ad andare all’estero. C’è stata anche una sperimentazione su questo e nel 1968 fu portata la prima dialisi a carico dell’urologia, fino ad arrivare 1993 e alla trapiantologia renale.
Quali sono ora gli obiettivi?
In questo momento, l’Italia sta recuperando uno stadio che non aveva percorso sulla donazione di organi, soprattutto per quanto riguarda il donatore vivente. Abbiamo cominciato a muoverci in questa direzione, un po’ interrotti dalla pandemia, ma abbiamo ripreso già lo scorso anno, contando sei trapianti da vivente. Quest’anno siamo già a cinque e pensiamo di arrivare ben oltre.
Perché il vivente?
Intanto perché gli organi non sono mai abbastanza per rispondere alle esigenze, inoltre, questo tipo di donazione fornisce un organo che non ha sofferto, che riparte immediatamente e che ha una funzionalità migliore e spesso una maggiore compatibilità. C’è anche un altro modo di allargare la platea di donatori, che è la soluzione della donazione da cadaveri a cuore fermo, meno frequente ma su cui si può lavorare nei prossimi anni e che può dare soddisfazioni.
In questi anni com’è cambiato il modo di operare?
Il primo trapianto di rene fu fatto nel 1954, la tecnica fu studiata da due chirurghi francesi, con la cosiddetta tecnica francese di trapianto ed è quella che si usa tutt’ora, è rimasta quasi la stessa. È cambiata la tecnologia attorno e quindi i mezzi di cui possiamo disporre. Ad esempio, il trapianto da donatore vivente ora si può seguire con tecnica robotica o con tecnica laparoscopica e quindi mininvasiva, con grande beneficio per il donatore. Ma sono cambiati anche i mezzi di conservazione. La tecnica di base rimane quella della crioconservazione, a cui oggi si aggiunge la conservazione dinamica: una refrigerazione continua attraverso una pompa meccanica e un ossigenatore allo stesso tempo, che conserva in condizioni biologiche ottimali.
È cambiata anche la prospettiva dei pazienti?
Sicuramente, viviamo un’epoca in cui i farmaci immunosoppressori hanno portato alla sopravvivenza del trapianto a un numero di anni considerevole, che supera i 30. Quindi una prospettiva di lunga durata e con qualità molto buona.
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