The Last Dance di Leo Messi
Leo Messi ha conquistato il Pallone d’Oro. Ha vinto ancora lui. È l’ottavo riconoscimento in carriera. Alla notizia, emerge una reazione di stanchezza, quella che accompagna i dominatori del gioco, quelli che sono destinati a essere i vincitori, sempre e comunque. L’antipatia della vittoria. Di nuovo Messi? Pure ora che se n’è andato a svernare a Miami, a prepararsi un futuro da business man nel rutilante mondo dello sport americano?
Questa volta è diverso. Forse questo Pallone d’Oro è il più meritato di sempre per l’argentino. Il riconoscimento è arrivato all’ultimo capolavoro di una carriera irripetibile. Il più atteso, il più cercato, il più voluto e, probabilmente, il più frustrante. Senza indossare la camiseta blaugrana del Barcellona. Leo Messi è stata l’anima dell’Argentina che ha trionfato ai mondiali in Qatar. Era l’ultimo trofeo, forse il più importante, da alzare al cielo. Per superare di slancio l’eterno rivale, Cristiano Ronaldo. Per vincere o quantomeno pareggiare il paragone col più grande del calcio argentino o, forse, del calcio in generale: Diego Armando Maradona.
La cavalcata mondiale in Qatar è stata leggendaria, per gli argentini. Che avevano sfiorato il sogno in casa degli odiatissimi rivali brasiliani, nel 2014. Ma allora c’era la Germania a sbarrare la strada all’Albiceleste. Otto anni dopo, di fronte a Messi e compagni, c’era la Francia di Mbappé. Forse, sulla carta, un avversario ancora più ostico della Mannschaft di Low. La finale è stato un passo doble, un duello serrato, uno scontro epico tra due leggende. Leo e Kylian hanno ribaltato lo stereotipo per eccellenza del calcio: la finale dei mondiali, di solito, è una partita grigia, tirata e nervosa. Perché nessuno vuole perdere. Francia e Argentina, si sono inchiodate sul 3-3 prima di raggiungere i rigori, dove è andata come sappiamo. Messi ha vinto e, finalmente, ha dato una risposta ai suoi detrattori: sì, Leo ha saputo caricarsi sulle spalle una squadra non proprio esaltante portandola al successo più atteso e inaspettato allo stesso tempo. Come Maradona.
Ma continuare, anche oggi, a paragonare Messi a Diego è fuorviante. Si tratta di due generazioni sportive diversissime. Semmai, quella di Leo in Qatar è stata la sua, personalissima, Last Dance. Più che El Pibe, MJ. Messi come Michael Jordan. Senza cacciare la lingua, nel calcio lo fa Jude Bellingham che probabilmente potrà rappresentare quello che oggi, per Jordan, è LeBron James, il pretendente al ruolo di Goat di tutti i tempi.
Condannati a vincere. Sempre e comunque. Individualismo esasperato che soverchia, forse in maniera eccessiva, il valore della squadra. Cosa avrebbe vinto, MJ senza Scottie Pippen, Rodman e Phil Jackson? Cosa avrebbe vinto Messi al Barça, senza Iniesta, Piqué, Xavi, Suarez e Pep Guardiola? La domanda dei detrattori, però, vale anche al contrario. Quanti anelli o quante Champions avrebbero vinto i Bulls e il Barcellona senza la Pulce e senza Jordan?
Vincenti e antipatici, perché chi vince sempre alla lunga annoia. Ma se vivi lo sport come impegno totalizzante, non puoi fare altrimenti. Allergici, entrambi, a fare dello sport una tribuna politica. Jordan, quando gli chiesero di appoggiare pubblicamente un candidato afroamericano al Senato dei democratici, rispose (secondo la leggenda…) che anche i repubblicani compravano le sneakers. Le sue. Messi, indifferente alle caterve di polemiche internazionali sui diritti umani e sullo sport-washing, sfilò alla premiazione indossando il Bisht. Business is business. Non per caso, dunque, Messi se ne è andato a Miami. Dove ha trovato l’ex arcirivale madridista David Beckham. Uno che l’ha capito prima degli altri come potevano andare le cose nel calcio.
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