Politica

Tanto tuonò che (non) piovve quel gap fra promesse e azioni

di Redazione -


di Edoardo Greblo & Luca Taddio

Il governo Meloni si è presentato all’insegna della discontinuità rispetto al governo procedente. E le sue prime scelte in campo istituzionale sono sembrate andare in questa direzione. Si pensi alla scelta delle presidenze per i due rami del Parlamento, per la gestione del Covid, per il modo in cui è stata affrontata la vicenda di Humanity 1 e della Geo Barents, per la lettera inviata alle scuole dal nuovo ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara al fine di avviare una riflessione sull’“esito drammaticamente fallimentare” del comunismo simboleggiato, a parere del ministro, dalla caduta del Muro di Berlino. Gli esempi potrebbero continuare, ma a unirli c’è un tratto in comune: la volontà di perseguire un progetto ideologico-simbolico-identitario che si ispira alla sacra triade Dio-patria-famiglia e che sembra voler far tornare la società italiana indietro di decenni. Se invece si guarda alla politica estera, le scelte finora compiute sembrano muoversi nel segno di una sostanziale continuità con le scelte compiute dal governo Draghi. Già prima del suo insediamento a Presidente del consiglio, Meloni aveva affermato che “la politica estera di un governo a guida Fratelli d’Italia resterà quella di oggi. Per me è una condizione. E non credo che gli altri vogliano metterla in discussione”. E aveva aggiunto: “Se noi non mandiamo le armi, l’Occidente le continuerà a mandare, e ci considereranno un Paese poco serio. Il problema sarà nostro. Bisogna essere lucidi: non possiamo pensare di essere neutrali senza conseguenze”. E questo nonostante tra i suoi alleati le posizioni non fossero esattamente le stesse, se solo si pensa ai rapporti di Forza Italia e della Lega di Salvini con la Russia e con Putin. Per il momento, le preoccupazioni di chi temeva l’eventualità che l’Italia mettesse realmente in atto le dichiarazioni in salsa sovranista e anti-europeista sbandierate in campagna elettorale sono state fugate. La politica estera del governo Meloni si colloca nella scia tracciata dal governo Draghi, che aveva adottato l’atlantismo e il filo-europeismo quali linee-guida della sua azione nella realtà internazionale. Si vedrà alla prova dei fatti se gli orientamenti attuali continueranno a prevalere e, soprattutto, se rispondano alla volontà di guadagnarsi credito e rispetto presso le cancellerie europee e l’alleato americano o se ne ispireranno le scelte anche nel prossimo futuro. Per il momento, prevale la continuità. Se si guarda infine alla politica economica, l’impressione è che il quadro sia piuttosto simile. Il governo Meloni, tranne qualche dichiarazione di circostanza, non sembra voler mettere in discussione l’impianto del Pnrr così come lo ha disegnato l’amministrazione precedente. È vero che la Presidente del Consiglio ha denunciato alcuni ritardi riguardo allo stato di avanzamento dei lavori, ma ha anche affermato che “serve il massimo impegno di tutti e la più ampia collaborazione”. Non proprio una dichiarazione di guerra, si direbbe. E che dire delle mirabolanti promesse fatte nel corso della campagna elettorale, dalla riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi, all’abolizione o alla profonda revisione del Reddito di cittadinanza e all’innalzamento delle pensioni minime, sociali e di invalidità, dall’aumento dell’Assegno unico universale all’introduzione di un quoziente familiare in modo da tenere conto del rilievo del numero dei componenti di una famiglia rispetto alla tassazione del suo reddito? Finora nulla, tranne qualche dichiarazione a favore di microfono o di social. La ragione è presto detta: i famosi “vincoli esterni” valgono per tutti, anche e soprattutto per chi ha dovuto rinunciare ai fasti della propaganda per misurarsi con la dura e prosaica realtà. Il governo Meloni si trova nel mezzo di una lunga crisi economica strutturale, che impone scelte obbligate. Tra le quali, dare continuità alla cosiddetta “agenda Draghi”, privilegiando, eventualmente, alcune delle sue constituency tradizionali. Perciò, tranne alcune sfumature e alcuni aggiustamenti, anche in questo campo il governo ha sinora operato come una sorta di amministratore fiduciario di chi lo ha preceduto, per quanto, come si è detto, strizzando l’occhio alle fasce più ricche e occupandosi ben poco dei lavoratori. 


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