Rapporto Svimez: il Sud cresce ma adesso rischia grosso
Per il secondo anno di fila, secondo Svimez, il Sud cresce più del Centro-Nord ma lo sprint del Mezzogiorno è destinato a durare pochissimo. Già, perché con la fine di Decontribuzione Sud e i guai dell’automotive e, più in generale, dell’industria italiana, il Meridione rischia davvero di capitombolare all’indietro. Ne è convinto lo Svimez che ieri ha presentato il Report 2024 sul Mezzogiorno. La fotografia annuale delle condizioni del Sud rivelano che, nel 2024, è cresciuto più del resto del Paese (+0,9% contro lo 0,7% nazionale) grazie agli investimenti in costruzioni e nelle opere pubbliche. Solo al Sud, infatti, gli investimenti del Pnrr valgono l’1,8 per cento del Pil locale. Da ciò deriva la considerazione per cui dal Piano nazionale di ripresa e resilienza dipendono fino a tre quarti della crescita meridionale da qui fino ai prossimi tre anni. Per il Centro e per il Settentrione, la proporzione è del 50%. Alla crescita, però, non sono corrisposti aumenti nei consumi e le famiglie meridionali hanno ricominciato a stringere i cordoni della borsa (-0.1% rispetto al +0,3% del resto del Paese). Ciò è accaduto per colpa del sostanziale dimezzamento del reddito disponibile e per i prezzi la cui salita resta più alta che nel resto d’Italia. Insomma, occorre che gli investimenti pubblici corrano spediti perché il Sud mantenga almeno la speranza di mantenere un trend di crescita. Perché, sotto il profilo dell’industria, le difficoltà restano enormi. Aggravate, peraltro, dalla crisi che affligge il settore automotive. Nel Mezzogiorno, spiegano gli analisti Svimez, è stato prodotto il 90% dei veicoli italiani. Bene, a prima vista. Male se si “pesano” i dati: la produzione, difatti, ha perso ben 100mila unità (addirittura il 25%) rispetto al 2023. Lo stabilimento maggiormente colpito dalle difficoltà è risultato quello lucano di Melfi che ha perso il 62% della produzione, 90mila veicoli. Male pure Pomigliano (-6%), Atessa (-10%). E poiché i guai son come le ciliegie, a completare il disastro c’è stato il clamoroso dietrofront su Termoli. Qui doveva nascere la gigafactory italiana per la produzione di batterie destinate alle auto elettriche. Un investimento da due miliardi che avrebbe dovuto rilanciare la centralità tricolore, strappando l’Italia dalla dipendenza con l’estero. Invece Stellantis ha deciso di investire in Francia e il governo ha tolto i fondi. Il guaio, adesso, è del Molise. Che, per un attimo, ha sperato di esistere e, alla faccia dei buontemponi del web, di vivere una nuova stagione di importanza strategica e che, invece, rischia di scomparire, ancora una volta, dalle carte geografiche dell’industria. Il Sud non è (ancora) un deserto industriale. E basterebbe poco, secondo Svimez, per rimettere tutto in ordine. A cominciare dal lavoro per restituire centralità al Mezzogiorno in fatto di supply chain e approvvigionamento, insomma se si punta sul Mediterraneo si può trovare la quadra per riscattare il Sud dall’incubo di una (ulteriore) crisi.
Ma c’è un’altra spada di Damocle che incombe sulle potenzialità e lo sviluppo del Mezzogiorno. Si tratta della fine di Decontribuzione Sud: secondo i calcoli degli economisti Svimez, l’abrogazione della norma comporterà un impatto, negativo, su crescita e occupazione meridionale. Il pericolo è quello di mandare in fumo ben due punti di crescita di Pil. I correttivi previsti in manovra non sembrano bastare: complessivamente dal governo sono stati stanziati 6,8 miliardi (2,4 per il 2025 e 4,4 per i due anni successivi) ma, per il momento, non si sarebbero ancora comprese le destinazioni per questi fondi. Che, comunque, rappresenterebbero quasi la metà di quanto effettivamente è stato tagliato. Inoltre c’è il rischio di bruciare fino a 25mila posti di lavoro, 3% dell’occupazione totale al Sud. Un autentico guaio per il Mezzogiorno dove il lavoro resta più povero che altrove (il 60% dei contratti è al di sotto della soglia della povertà) e dove il salario, in generale, s’è rimpicciolito più che nel resto del Paese.
Davanti a questo scenario, Svimez promuove un altro appello a stoppare l’autonomia differenziata. A congelare, una volta e per sempre, le trattative tra lo Stato e le Regioni e a riportare il dialogo “all’interno di un’ordinata attuazione del federalismo simmetrico, basato sui princìpi, inderogabili, della sussidiarietà verticale e orizzontale e della solidarietà nazionale”. Un percorso che “deve necessariamente partire dal superamento delle iniquità della spesa storica, attraverso una compiuta assicurazione di livelli essenziali delle prestazioni basati su fabbisogni e costi standard, e dalla garanzia di un fondo di perequazione in grado di rimuovere i divari territoriali nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali”. Perché se cade il Sud, cadiamo tutti. E non è retorica. Anzi.
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