Storia del Teatro: la necessità primordiale del racconto
Nancy J Stevens, professoressa di Scienze Biomediche all’università dell’Ohio, ha rivelato che la scimmia antropomorfa interagiva con altri simili attraverso il linguaggio. La parola è ancestrale tanto quanto l’uomo e i suoi antenati. Siamo una specie che per natura ha bisogno di comunicare, di interagire e di fraintendersi. C’è un detto scandinavo che dice “fraintendiamoci bene”. Il rischio di non essere capiti, la natura fallace della comunicazione tra simili è intrinsecamente connessa alla sua riuscita. Più sbagliamo, più apprendiamo come comunicare. Prendere la parola è un rischio: non solo di essere fraintesi, ma soprattutto di essere capiti. Facendoci capire, affermiamo a un altro essere umano la nostra esistenza. Ecco l’importanza del linguaggio. La parola è l’incontro di due esistenze che s’ignoravano fino a quel momento. È un atto di coraggio, necessario. Perché come scriveva lo psicologo e filosofo Watzlawick “l’uomo non può non comunicare”. Irrimediabilmente destinati a esprimerci, il genere umano ha lasciato innumerevoli tracce lungo la storia. Già nel Neolitico l’essere umano incideva nelle grotte scene di vita quotidiana ma anche animali o cerimonie di cui non si conosce appieno il significato. Esse raccontano la società dell’epoca, esattamente quello che fa un film o uno spettacolo teatrale oggi. Siamo una specie che racconta. Lo storytelling è la forma più efficace per memorizzare informazioni. Walter Ong e Eric Havelock sostengono che l’aedo omerico svolgesse questa funzione educativa. Tramite il racconto ἦθος (èthos) e νόμος (nòmos), ossia i valori etico-morali e le norme giuridico-politiche, erano assimilati da chi ascoltava. L’essere umano è una specie unica: racconta e si racconta. In questo si scorge un’infinita tenerezza, il rito collettivo di vedersi rappresentati risponde a un’esigenza antica e necessaria. Un’esperienza corale dove la finzione serve a comprendere meglio la realtà. Al cinema o a Teatro viviamo le emozioni dei protagonisti con un senso di deresponsabilizzazione che ci permette di empatizzare in un modo in cui, forse, in prima persona non potremmo. L’Arte è catartica, per riprendere Aristotele nella Poetica. Alla luce di questo possiamo capire le incisioni rupestri del Neolitico che raffigurano scene di caccia dove gli animali però sono degli esseri umani. È appurato che come rito propiziatorio le tribù organizzassero, prima della caccia, spettacoli in cui alcuni attori impersonavano gli animali e altri i cacciatori. La rappresentazione culminava con la vittoria dei cacciatori, con significato beneaugurante. Gallese scrive in merito alla necessità della finzione artistica: “perché la finzione artistica è spesso più potente della vita reale nell’evocare il nostro coinvolgimento emozionale ed empatico? Forse perché, attraverso lo scarto prodotto dalla creazione artistica, l’uomo è costretto per un’ora o due a sospendere la presa indiretta sul mondo liberando energie fino a quel momento indisponibili”. Antonin Artaud rivendica l’importanza del Teatro sulla vita: “È chiaro che si tratta in tale spettacolo di giungere a una specie di grandiosa orchestrazione a cui non solo il senso e l’intelletto partecipino come in certi grandi melodrammi, ma tutta la sensibilità nervosa e disponibile di cui il pubblico in generale non si serve che nelle occasioni extrateatrali, movimenti sociali, catastrofi intime, incidenti ed esaltazioni di ogni specie che fanno della vita la più gigantesca delle tragedie.” Vita e Arte scorrono su due binari, a volte si intersecano, altre si sovrappongono e a quel punto non sappiamo più a quale delle due credere. Quel che è certo è che avremmo sempre bisogno di raccontarci. La storia dice questo, nel nostro genoma, nascosto tra i miliardi di coppie nucleotidiche, c’è una specie che racconta.
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