Stangata di 60 milioni per i cavatori italiani all’ombra del Drago
“Confidiamo che finalmente qualcosa si muova, adesso che le enormi dimensioni della truffa in Cina ai danni anche di imprenditori italiani sono state portate a conoscenza dalla stampa, proprio nei giorni in cui il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è in visita ufficiale ed ha incontrato Xi Jinping”. I marmisti Massimo Gallus di Nuoro e il collega Giancarlo Bocchese di Vicenza esprimono all’unisono l’auspicio a poche ore da quando l’amarissima beffa della “Città della Pietra” nel Comune di Dafeng, nell’impero del Drago, è diventata di dominio pubblico. Un centinaio di investitori, numerosi dei quali italiani guidati appunto da Gallus e Bocchese che erano sbarcati in Cina ancora nel 2010, a distanza di anni hanno scoperto che l’area sulla quale avevano investito 60 milioni costruendo capannoni e infrastrutture per realizzare un polo della lavorazione dei marmi da destinare al mercato cinese, era stata venduta due volte dagli amministratori pubblici di Dafeng. Alcuni dei quali, si apprende, di recente sono stati arrestati assieme ad altri non ben meglio precisati personaggi. I quali, come si sa a quelle latitudini, rischiano molto. Non solo il carcere. Tra l’altro, il contenzioso civile instauratosi tra i due gruppi di invesitori ha dato torto agli europei perché l’ente marittimo cinese ha dichiarato non congrue le attività industriali degli italiani perché realizzate su aree marine la cui competenza a rilasciare le autorizzazioni non è il Comune di Dafeng, bensì quello superiore regionale. Morale? Le attività industriali della “Città della Pietra” sono state chiuse quando erano pronte per impiegare centinaia di addetti, e numerosi fabbricati sono stati abbattuti. Nel frattempo i concorrenti avevano realizzato un grande impianto di desanilizzazione dell’acqua. È una storia all’apparenza incredibile quella che hanno raccontato Gallus e Bocchese in questi giorni ai giornalisti, anche perché l’operazione “Città della Pietra” era stata pubblicizzata in lungo e in largo in questi anni, perché rappresentava uno dei tanti fiori all’occhiello dell’imprenditoria occidentale in Cina. Era stata realizzata su una vasta area di 133 ettari, con grande attenzione all’impatto ambientale, sui quali erano sorti i capannoni che avrebbero dovuto far lievitare l’iniziativa costata oltre 60 milioni di euro. Della partita giocata attraverso il veicolo societario Ouhua, al gruppo di otto industriali italiani e altrettanti tra indiani, spagnoli e olandesi, assieme all’imprenditore cinese Gao Quangfang, si erano aggiunti un centinaio di piccoli soci europei che avevano sostenuto l’investimento per compartecipare agli utili. Così almeno credevano. “L’azienda ha prodotto solo per un anno e quando eravamo pronti per svilupparci ulteriormente con grandi prospettive – ha riferito Bocchese ai cronisti – ci siamo trovati invischiati in questa sconcertante vicenda che ha tutti i contorni della truffa. Del resto noi ci eravamo accordati con degli amministratori pubblici, perciò pensavamo di essere in una botte di ferro”. Da allora è stato instaurato un braccio di ferro giudiziario dell’importo di 92 milioni di euro, a tanto ammonta l’entità della causa intentata dalla società Ouhua, costituita dagli imprenditori italiani ad Hong Kong nel 2010, nei confronti dell’ente pubblico. Tra i più delusi, comprensibilmente, c’è proprio Bocchese, responsabile della ricerca e sviluppo della società Ouhua, titolare della Miramarmi nella vallata del Chiampo a Vicenza, per il quale “se è vero che di rischi quando si fanno affari in giro per il mondo se ne corrono sempre, è altrettanto vero che in questo caso siamo stati raggirati da amministratori pubblici, del Comune di Dafeng, che si sono comportati in modo sconcertante. Non potevamo certo pensare che quelle autorizzazioni non avrebbero potuto rilasciarle, anche perché da quando è scoppiato il caso erano trascorsi molti anni e la grande lottizzazione era già stata completata”. Deluso anche Massimo Gallus che quando constatò che sui terreni che ritenevano di avere legittimamente acquistato si sono presentati altri compratori, con tanto di contratto, sono caduti dalle nuvole. “Non ci credevamo, pareva impossibile – afferma – poiché quando gli interlocutori ci dissero che quell’area l’avevano acquistata dal governo per costruirvi sopra l’impianto di desalinizzazione, ci sembrò di essere come su «Scherzi a parte», mentre in realtà iniziava un incubo legale e finanziario che non si è ancora concluso e che ci ha profondamente segnati”.
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