Slowbalization, le incognite del futuro fra rischio povertà e disuguaglianze
di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
Sono sempre più numerosi gli osservatori che considerano esaurita l’età dell’oro della globalizzazione, o perlomeno del modello che si è imposto con l’iper-globalizzazione neoliberale a partire dagli anni Novanta. Naturalmente, è sempre opportuno evitare diagnosi premature, e infatti molti preferiscono parlare di slowbalization, di un rallentamento nei processi di integrazione economico-finanziaria tra i diversi Paesi. Eppure, non c’è dubbio che i segnali orientati in questo senso non mancano: la rinascita del nazionalismo politico e del protezionismo economico, di cui è espressione il sovranismo tecnologico simboleggiato dai 400 miliardi di sussidi americani alla transizione ambientale delle proprie imprese, il reshoring o friend shoring, cioè la tendenza a concentrare la produzione a livello domestico o in casa di Paesi amici, o il decoupling tra Occidente e Cina. L’aspetto più singolare di queste tendenze è dato dal fatto che a far inceppare il meccanismo dell’iperglobalizzazione non sia stato l’acuirsi delle disparità di reddito, ricchezza, doti e fortuna, quantomeno nei Paesi occidentali, ma una grande pandemia, che ha messo a nudo la vulnerabilità, oltre che degli esseri umani, anche delle catene del valore che stanno alla base dei rapporti di interdipendenza su scala globale. La de-globalizzazione sembra essere perciò l’espressione della volontà di imprese e governi di rendersi meno dipendenti da altri Paesi o da altre regioni al fine di ridurre la propria vulnerabilità a choc esogeni.
La tendenza alla de-globalizzazione non è però immune da controindicazioni, già sul piano strettamente economico. Anzitutto, l’applicazione di limiti o vincoli nell’accesso ai mercati del lavoro internazionali può comportare un aumento dei costi di produzione, innescando una tendenza al rincaro dei prezzi e limitando la disponibilità di determinati prodotti o servizi, che possono essere difficili o costosi da produrre a livello nazionale. In secondo luogo, può incrementare la concorrenza all’interno delle varie catene di approvvigionamento, rendendo più onerosa l’acquisizione dei materiali per i beni e i prodotti da realizzare. Inoltre, con l’aumento della volatilità nei mercati internazionali, le aziende potrebbero ritrovarsi a dover fronteggiare fasi di crescente incertezza, tali da indebolirne la tenuta economica e finanziaria. Infine, l’innalzamento di barriere doganali oppure l’introduzione di tariffe sulle merci di importazione potrebbe mettere in crisi la possibilità delle imprese di competere sui mercati, portare a un aumento dei costi e a una diminuzione della redditività le cui conseguenze potrebbero influire negativamente sulla economia globale.
I rischi di una de-globalizzazione fuori controllo – così come fuori controllo è stata la iperglobalizzazione – non sono però solo economici. Sono anche geopolitici. I Paesi potrebbero essere sempre meno disponibili a cooperare tra loro su problemi di portata globale come il cambiamento climatico e rinunciare a coordinare le esigenze legittime di ciascuno Stato con l’interesse generale. Inoltre, in un mondo de-globalizzato potrebbe essere più complicato portare avanti la gestione e lo sviluppo delle innovazioni in campo tecnologico, dove i progressi sono spesso legati alle pratiche di collaborazione internazionale. Se questa collaborazione venisse meno per effetto delle crescenti tensioni politiche o dell’allentamento dei legami economici, è possibile che i progressi tecnologici siano destinati a subire decisi rallentamenti. E ciò potrebbe influire sulla nostra capacità di affrontare sfide globali come il cambiamento climatico o la riduzione della povertà, dato che ormai la tecnologia gioca un ruolo decisivo nell’affrontare problemi di questa portata. E infine, i cambiamenti nel panorama economico internazionale potrebbero, a loro volta, comportare tassi più elevati di disoccupazione e minori opportunità, soprattutto per i cittadini dei Paesi in via di sviluppo, con conseguenze la cui gravità può essere superiore alle normali tensioni politiche tra i vari Paesi. E ciò, in particolare, se fossero inaspriti i vincoli alla mobilità delle persone.
È ovviamente difficile immaginare come possa essere un mondo de-globalizzato, ma alcuni dei processi politico-economici attualmente in corso lasciano intuire cosa potrebbe accadere se queste tendenze avessero modo di radicarsi ulteriormente. Ad esempio, potremmo assistere a ulteriori divisioni tra Paesi ricchi e Paesi poveri, poiché le nazioni più ricche sono in grado di proteggere i propri interessi mentre le nazioni più povere dovrebbero misurarsi con livelli di povertà crescenti a causa della mancanza di accesso ai mercati globali. Non è difficile ipotizzare un’ulteriore crescita dei nazionalismi e pensare a possibili conflitti tra i diversi Paesi per l’accesso alle risorse e per la conquista di situazioni di supremazia nei confronti di Paesi più deboli. E, infine, è probabile che le diseguaglianze, sia intra-nazionali che internazionali siano destinate a crescere, aumentando la polarizzazione dentro i Paesi ricchi ed escludendo segmenti sempre più ampi di popolazione dei Paesi poveri dalla possibilità di essere integrati nella rete dell’economia mondiale.
Naturalmente, la globalizzazione non è stata il paradiso in terra dipinto dai neoliberisti, e la de-globalizzazione ne è la prova. Ma proprio per questo è più che mai necessario immaginare una globalizzazione meno selvaggia, una ri-globalizzazione capace di bilanciare la sovranità degli Stati con l’azione di coordinamento delle istituzioni internazionali nella prospettiva di un mercato più inclusivo ed equo e di uno sviluppo più attento alla salvaguardia del pianeta.
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