PRIMA PAGINA-Sbancati: dal fallimento Signa alle banche, la bolla che scoppia in Europa
Come al solito, paga sempre Pantalone. È una vecchia regola del capitalismo degli ultimi anni. Quando le cose vanno bene, si firmano bilanci super-ricchi che fanno felici gli azionisti in nome del libero mercato. Se, invece, gli affari si mettono male è giusto ripensare al socialismo, valorizzare il ruolo degli Stati e costringerli a metter mano alle casse, riempite di soldi pagati dai cittadini, per ripianare le perdite. È già accaduto. Accadrà ancora. Ma, almeno, questa volta la forma sarà salvata. Non si saranno scialuppe di salvataggio lanciate nella procella della polemica pubblica. Perché il jolly, le banche, lo hanno già. E lo hanno giocato quando, invece di corrispondere allo Stato la tassa sugli extraprofitti, hanno deciso di utilizzare quelle somme per rafforzare la propria capitalizzazione.
Il fallimento Signa è la scintilla che innesca la miccia al disastro dell’economia europea. Si tratta di un colosso immobiliare, fondato in Austria da René Benko, ennesimo enfant prodige della finanza e dell’economia, che ha messo su, dal nulla, un impero che, contando solide radici tra Vienna e Berlino, s’è rapidamente ramificato in tutta Europa, con propaggini anche negli Stati Uniti. Benko ha fatto carriera, come tanti, prendendo soldi a prestito dalle banche e portando avanti progetti che gli hanno consentito introiti importantissimi e lo hanno portato a diventare un habitué dei salotti buoni dell’aristocrazia mercantile europea. Tutti volevano una fetta di Signa. Dai Peugeot fino ai Lauda. E perciò le banche erano felicissime di poter contribuire a dare la benzina, cioè i capitali, a un gigante da 27 miliardi di asset immobiliari (dalle abitazioni fino ai centri commerciali e al Palazzo Chrysler di New York) con ulteriori progetti da ben 25 miliardi.
Poi è arrivata la guerra. L’inflazione ha scatenato i rialzi indiscriminati dei prezzi delle materie prime delle costruzioni. La Bce ha cominciato ad alzare i tassi come se non ci fosse un domani, rendendo impossibile per le persone comuni accendere o addirittura chiedere un mutuo. È stata una combo micidiale a cui Signa non è sopravvissuta e così, nelle scorse settimane, Benko ha portato i libri in tribunale a Vienna e a Berlino Charlottenburg, per la filiale tedesca. La notizia ha fatto suonare, a morto, i campanelli d’allarme delle maggiori banche europee. La svizzera Julius Baer, stando agli analisti, si è ritrovata esposta per 606 milioni di franchi, 636 milioni di euro. E poi c’è Unicredit che, stando a quanto riferiscono gli analisti, con la sua filiale austriaca e insieme a Raiffeisen, si ritroverebbe esposta per 1,5 miliardi di euro, di cui stando ad alcune voci insistenti in ambito finanziario almeno 600 milioni sarebbero da ricondurre proprio all’istituto di credito italiano, nell’affaire che rischia di travolgere quel che rimane del mercato immobiliare della Mitteleuropa.
La banca italiana non rischia niente. Ufficialmente, non ha confermato l’esposizione con Signa ma alcune voci parlano di un coinvolgimento che non è sistemico. Ma legato, per lo più, al finanziamento di singoli progetti disseminati tra le maggiori città dell’Europa del Nord. Unicredit, poi, è così solida e liquida che potrebbe superare in scioltezza il caso Signa. Già, perché basta tornare indietro di qualche mese per scoprire che la banca ha scelto di capitalizzare, invece di pagare come tassa sugli extraprofitti, qualcosa come 1,1 miliardi di euro. Ce ne vorrebbero due, di Signa, per impensierire Unicredit. Però la partita di giro è chiara: quei soldi, in fondo, sarebbero dovuti andare allo Stato ma le banche li hanno trattenuti per rinforzarsi. Come al solito, anche senza mai vederli davvero, a pagare è stato il solito Pantalone, beffato due volte perché le banche hanno guadagnato (e continuano a farlo) fantastiliardi mantenendo a zero i tassi di interesse sui conti e quei soldi sarebbero dovuti andare ai correntisti se, in un mondo ideale, i depositi avessero mantenuto dei rendimenti.
Ma perché le banche italiane avevano bisogno di capitalizzare se il sistema creditizio italiano è solido? Un’indagine di Altroconsumo, a ottobre, riferiva che il 40% delle banche italiane avevano ottenuto una valutazione a cinque stelle. Ottimo risultato ma va da sé che rimane un altro 60%, la maggioranza, di istituti di credito che non appaiono così perfetti. A febbraio, invece, la Bce aveva diramato la classifica delle dieci banche più sicure d’Europa. Due gli istituti italiani: Credem e Mediolanum. Insomma, per dirla con il cantante: bene ma non benissimo.
Ma le questioni non sono soltanto statistiche. Perché l’attualità corre e l’anno che volge al termine ci ha regalato (altre) crisi che per mesi ci hanno fatto tremare e che, adesso, crediamo siano alle spalle. È cominciata con il tracollo del sistema bancario regionale americano (ricordate, Silicon Valley Bank?), è proseguita quando ha vacillato Credit Suisse e poi è continuata con le scosse telluriche che hanno interessato Deutsche Bank. Credere che ogni banca faccia mondo a sé è come pensare che un dito possa muoversi senza badare a ciò che fa l’intera mano. Inoltre c’è da dire che le banche italiane stanno subendo una sorta di shortage della loro materia prima per eccellenza. La Fabi ha calcolato che sono spariti dai conti degli italiani circa 90 miliardi di euro. Servono alle famiglie per far la spesa. Ma senza soldi, investire diventa ancora più difficile di quanto già non lo sia in un periodo contraddistinto da una politica monetaria di ferro, come quella decisa da Lagarde e soci. I prestiti, dunque, si assottigliano e soldi non ce ne sono né per le imprese né per le famiglie. La spirale è innescata.
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