SCUSATE IL RITARDO
Tommaso Cerno
Come lo scudetto del Napoli, che poteva già stare appeso sulle magliette da un po’, il ritardo doloso sembra essere l’unico tratto distintivo nazionale dell’Italia: ritardo sul lavoro, sul carovita, sull’energia, sul clima, sui disastri naturali. Ritardo sulle riforme. Ritardo sul Pnrr. Ritardo sul debito. E ritardo perfino sugli orsi.
Come un orologio rotto, l’Italia mostra i segni di una stanchezza cronica, l’affanno di una corsa cominciata senza sapere bene in che direzione andare, diventata affannosa negli anni, sempre alzando l’asticella delle richieste al popolo, dei soldi presi a chi lavora, di riffa o di raffa, per fare guerre, per contrastare pandemie, per pagare i tassi che l’Europa decide di alzare da un giorno all’altro, senza alcun effetto positivo sull’inflazione. Un modo di essere del Paese che ora mette il governo nella condizione di dosare le promesse, dosare l’entusiasmo, agire con pragmatismo sempre sapendo che un’iniezione di fiducia è già oro che cola, perché l’idea di poter risolvere in pochi mesi i problemi accumulati negli ultimi dieci, quindici anni è una favola a cui non crede più nessuno.
In tutto questo, la politica gioca solo con uno schema: lo scontro ideologico su tutto. Peccato che siamo in ritardo perfino sulle ideologie. Se da parte destra c’è qualche rigurgito di troppo fra fascistite di ritorno e orpelli nostalgici del tutto fuori dal tempo, la sinistra è in ritardo nella percezione di sé. Fa e disfa. Come nel caso del decreto Lavoro del primo maggio. Teniamo fuori la polemica, ridicola, sull’oltraggio di un consiglio dei ministri riunito in occasione della festa del Lavoro perché rasenta il ridicolo e occupiamoci piuttosto delle critiche alla modifica del decreto dignità e del Reddito di cittadinanza. Il Pd ha dato fuoco alle polveri, suonato il disco delle grandi occasioni, attaccato Giorgia Meloni (cosa non solo legittima ma perfino scontata). Peccato che l’abbia fatto mostrando tutta la confusione che regna nella testa pensante del capo progressista contemporaneo, smentendo dalla prima all’ultima parola tutto quello che quello stesso partito (che nel frattempo ha cambiato tre, dico tre, segretari) aveva detto e fatto fino allo scorso settembre, mese delle elezioni politiche, durante tutto il corso di una legislatura in cui era stato al governo tre anni su quattro. Perché fino a prima del governo Meloni quello stesso Pd aveva contestato e votato contro il decreto dignità che oggi difende, come se la destra avesse profanato un monumento sacro. Allo stesso modo aveva votato contro il Reddito di cittadinanza, stigmatizzandolo come una prebenda in mano ai grillini. Reddito che oggi sembra essere il simbolo stesso della sinistra dem. E in più spara a zero sul taglio del cuneo fiscale (certo non strutturale, per ora, certo non sufficiente, come fosse la panacea di tutti mali) ma perfettamente in sintonia con quanto fatto dal governo Draghi con il voto convinto del Pd che oggi bercia. Solo che Draghi aveva tolto due punti al cuneo, Meloni uno prima e quattro adesso per un totale di cinque. Ora, capisco che la sinistra di mestiere attacca la destra, ma prima di farlo se vuole essere efficace faccia la pace con se stessa, si segni su un foglietto come ha votato e parlato per anni e cerchi di non trattare noi italiani come dei fessi. Perché fessi non siamo.
Come un orologio rotto, l’Italia mostra i segni di una stanchezza cronica, l’affanno di una corsa cominciata senza sapere bene in che direzione andare, diventata affannosa negli anni, sempre alzando l’asticella delle richieste al popolo, dei soldi presi a chi lavora, di riffa o di raffa, per fare guerre, per contrastare pandemie, per pagare i tassi che l’Europa decide di alzare da un giorno all’altro, senza alcun effetto positivo sull’inflazione. Un modo di essere del Paese che ora mette il governo nella condizione di dosare le promesse, dosare l’entusiasmo, agire con pragmatismo sempre sapendo che un’iniezione di fiducia è già oro che cola, perché l’idea di poter risolvere in pochi mesi i problemi accumulati negli ultimi dieci, quindici anni è una favola a cui non crede più nessuno.
In tutto questo, la politica gioca solo con uno schema: lo scontro ideologico su tutto. Peccato che siamo in ritardo perfino sulle ideologie. Se da parte destra c’è qualche rigurgito di troppo fra fascistite di ritorno e orpelli nostalgici del tutto fuori dal tempo, la sinistra è in ritardo nella percezione di sé. Fa e disfa. Come nel caso del decreto Lavoro del primo maggio. Teniamo fuori la polemica, ridicola, sull’oltraggio di un consiglio dei ministri riunito in occasione della festa del Lavoro perché rasenta il ridicolo e occupiamoci piuttosto delle critiche alla modifica del decreto dignità e del Reddito di cittadinanza. Il Pd ha dato fuoco alle polveri, suonato il disco delle grandi occasioni, attaccato Giorgia Meloni (cosa non solo legittima ma perfino scontata). Peccato che l’abbia fatto mostrando tutta la confusione che regna nella testa pensante del capo progressista contemporaneo, smentendo dalla prima all’ultima parola tutto quello che quello stesso partito (che nel frattempo ha cambiato tre, dico tre, segretari) aveva detto e fatto fino allo scorso settembre, mese delle elezioni politiche, durante tutto il corso di una legislatura in cui era stato al governo tre anni su quattro. Perché fino a prima del governo Meloni quello stesso Pd aveva contestato e votato contro il decreto dignità che oggi difende, come se la destra avesse profanato un monumento sacro. Allo stesso modo aveva votato contro il Reddito di cittadinanza, stigmatizzandolo come una prebenda in mano ai grillini. Reddito che oggi sembra essere il simbolo stesso della sinistra dem. E in più spara a zero sul taglio del cuneo fiscale (certo non strutturale, per ora, certo non sufficiente, come fosse la panacea di tutti mali) ma perfettamente in sintonia con quanto fatto dal governo Draghi con il voto convinto del Pd che oggi bercia. Solo che Draghi aveva tolto due punti al cuneo, Meloni uno prima e quattro adesso per un totale di cinque. Ora, capisco che la sinistra di mestiere attacca la destra, ma prima di farlo se vuole essere efficace faccia la pace con se stessa, si segni su un foglietto come ha votato e parlato per anni e cerchi di non trattare noi italiani come dei fessi. Perché fessi non siamo.
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