Negli ultimi tempi si fa un gran parlare delle difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale. Per carenza di medici, vaste aree del paese non sono coperte da medici di base, i concorsi ospedalieri vanno deserti per mancanza di specialisti, i servizi di pronto soccorso sono in perenne affanno con necessità di ricorrere ai “gettonisti”, le liste di attesa sono interminabili, con necessità di ricorrere al privato accreditato se non a pagamento in misura sempre maggiore. Non c’è alcun dubbio che il SSN sia alle corde e sempre più difficilmente riesca a rispondere in maniera efficace e tempestiva ai bisogni di salute dei cittadini. Tutto questo è frutto di una politica poco attenta alle dinamiche sanitarie del paese, dell’assenza di una seria programmazione atta a soddisfare una richiesta in forte crescita, di un finanziamento del SSN insufficiente ed in costante contrazione nell’ultimo decennio. Non ultimo anche la carenza di personale medico è stata additata come responsabile delle difficoltà attuali, tanto da indurre molti ad auspicare il ritorno del libero accesso al corso di laurea in Medicina e garantire negli anni un più ampio numero di professionisti, anche se disponibili sul mercato non prima del 2035, quindi tra più di 10 anni.
Come siamo arrivati fin qui? Dal 2010 al 2019 si è assistito ad un progressivo depotenziamento del SSN, soprattutto dei servizi di ricovero e cura, con chiusura di molte strutture, la cancellazione di circa 25mila posti letto di degenza ordinaria e un tetto alla spesa per il personale sanitario ridotto al 1,4%. Il personale del SSN è passato 673mila unità del 2012 a 648mila del triennio 2016-18. Solo l’emergenza Covid ha riportato il numero degli addetti a oltre 672mila nel 2021.
Che il blocco del turnover medico avrebbe prodotto effetti devastanti era stato ampiamente previsto e dai sindacati medici sin dal 2011, che evidenziavano come la “gobba pensionistica” avrebbe portato ad una fuori-uscita di circa 52mila unità entro il 2025 (parzialmente compensato dal trattenimento volontario in servizio fino a 70 anni). Un consensuale invecchiamento della classe medica e una deprecabile mancata sovrapposizione temporale tra medici più anziani e più giovani, indispensabile al trasferimento delle competenze in un’ideale osmosi di esperienza e conoscenza. Si dice che il SSN lamenti una carenza complessiva di almeno 20mila unità tra specialisti e medici di medicina generale (MMG). Se guardiamo alla medicina territoriale scopriamo che dal 2006 al 2021 MMG, pediatri di libera scelta (PLS) e guardie mediche sono passati da 71.354 a 57.566, pari ad una contrazione del 20%. In buona sostanza solo il 75% dei circa 3.000 MMG che vanno in pensione annualmente trova un sostituto stabile, negli altri casi si ricorre ad aggregazioni professionali, a incarichi provvisori, alla proroga automatica a 72 anni, all’aumento del massimale dei pazienti/medico da 1.500 fino a 2.000. Secondo i dati OCSE, l’Italia ha una percentuale di MMG di 3 punti percentuali inferiore alla media europea (17,5%) e una maggiore percentuale di specialisti (78,8% verso 68,7%), a testimonianza di una politica meno attenta al territorio ed una sanità più ospedale-centrica. Se adesso guardiamo ai medici dipendenti del SSN, oltre 113mila specialisti ospedalieri e con un’età media più alta tra tutti i paesi OCSE, circa 39mila (34%) andranno in pensione entro il 2030, pattuglia di un numero più ampio di pensionamenti che Il Ministero della Salute ha calcolato nell’ordine del 47% per i medici in servizio al 31/12/2020 (113mila su 241mila). Se calcoliamo che i nuovi iscritti a Medicina nei prossimi 10 anni (2021-2030) saranno circa 145mila (il 95% completerà il percorso), avremo circa 23mila laureati in più rispetto ai pensionandi a fine 2030, numero sufficiente a colmare il deficit numerico attuale.
Per diversi anni all’aumento dei laureati in Medicina non era corrisposto un equivalente incremento dei posti di formazione specialistica, venendo a crearsi un “imbuto formativo” che aveva lasciato nel limbo un numero consistente di laureati. Il problema veniva successivamente portato a soluzione con la progressiva crescita dei posti, passati dai 5.000 del 2015 a oltre 14mila degli ultimi tre anni accademici, con la punta di 18.317 posti del 2020-21. Secondo Agenas i medici che potranno diventare specialisti al 2026 è di un numero pari a 39.244, circa 10mila in più di quelli che nel quinquennio 2022-27 andranno in pensione. Non tutti i posti a disposizione nelle Scuole di Specializzazione sono però coperti, dei 30.452 contratti degli ultimi due anni accademici ben 3.907 (13%) non è stato assegnato e 1.601 (5%) viene abbandonato durante il percorso. Per alcune specialità la copertura dei posti non arriva al 50% di quelli disponibili, con punte del 70% per alcune discipline come Medicina d’Urgenza, Patologia Clinica e Biochimica, Microbiologia e Virologia. Ciò non avviene per specialità che offrono più sbocchi professionali, ritorni economici più gratificanti ed una qualità di vita migliore, come Dermatologia, Oftalmologia, Cardiologia dove i posti di Specialità vengono facilmente saturati. Quindi vi sarà forte carenza di alcuni specialisti da qui al 2026 se non si adotteranno opportuni provvedimenti di incentivazione sia economica sia professionale.
Prevedere il fabbisogno del personale medico e di specialisti tra 10 anni è molto difficile, ma vale la pena caratterizzare il contesto possibile dovuto ai cambiamenti demografici ed all’innovazione tecnologica a venire. Secondo l’ISTAT la popolazione italiana si è ridotta nel 2022 di un ulteriore 3% rispetto all’anno precedente ed il calo demografico proseguirà nei prossimi anni. L’aspettativa di vita alla nascita al giorno d’oggi è (80,5 anni per gli uomini e in 84,8 per le donne) è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Quindi, invecchiamento della popolazione, maggiore cronicità e dipendenza richiederanno più assistenza, possibilmente domiciliare tanto da pensare di istituire il Geriatra di base.
I numeri ci dicono che dal 2030 i medici e in particolare gli specialisti saranno più numerosi e più giovani degli attuali; quindi, non ci sarà bisogno di allargare a dismisura la platea degli studenti di Medicina, pena il rischio di creare un “imbuto lavorativo” e vanificare un’idonea formazione medica. Per fronteggiare le carenze mediche del momento sarà utile sostenere le iniziative in essere (aggregazioni professionali, estensione dell’età lavorativa, assunzione specializzandi), alleggerire l’attività dei medici demandando la parte burocratica, migliorare in modo sostanziale il ritorno economico, restituire al medico il ruolo sociale, in attesa della realizzazione delle Case e degli Ospedali di Comunità previsti dal PNRR.
In conclusione, i medici in Italia sono troppi o troppo pochi? Secondo i dati OCSE 2020 il numero totale dei medici per abitante in Italia è superiore alla media dell’UE – 4.0 rispetto a 3.8 per mille abitanti – con un rapporto tra infermieri e medici di 1,6, il valore più basso dopo la Spagna e ben lontano dal rapporto di 3,4 della Francia e 2,7 della Germania. Rapporto destinato a modificarsi anche nel nostro paese perché a fronte dei previsti 29mila circa pensionamenti di infermieri tra il 2022 e il 2027 se ne formeranno nello stesso tempo quasi 62mila. E qui serve una rivalutazione del fondo sanitario che non può rimanere poco sopra il 6% del PIL attuale, troppo lontano dai valori prossimi al 10% di Francia e Germania, per avvicinarsi ai cui standard servirebbero non meno di 40 miliardi. Il rilancio della sanità pubblica passa dalla valorizzazione del personale, oggi più che mai stanti le difficoltà del sistema, e come ben espresso da Ministro Orazio Schillaci in occasione della festa del 1° Maggio, “non è possibile alcun rilancio della sanità pubblica senza un serio investimento sul capitale umano che rappresenta la spina dorsale del nostro Servizio Sanitario Nazionale”.