Editoriale

RIPROVIAMOCI LA PROSSIMA VOLTA

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


Domani sarà il 26 aprile. E anche quest’anno la festa della Liberazione se ne sarà andata fra le polemiche. Un’occasione mancata per restituirle il senso profondo che dovrebbe avere, quello di un’Italia democratica uscita da una guerra terribile e da una dittatura che proprio nel nome della sua democrazia ha il diritto e il dovere di non avere mai un pensiero unico su nulla. Chissà se un giorno ci arriveremo, magari saranno i nostri nipoti a fare quello che i loro nonni non sono riusciti a capire. I giorni che ci separano dalla prossima festività che dividerà il Paese, il primo maggio, festa del lavoro, un nome tanto fuori dalla realtà quanto immerso in una storia di appartenenza e politiche, che dividerà ancora una volta questo Paese traballante mentre i precari chiedono aiuto, i salari sono i più bassi dei Paesi industrializzati del mondo, la disoccupazione cresce, gruppi di cooperative o pseudo società di capitale fanno lavorare milioni di persone a tre euro all’ora. Quello che non faremo nemmeno quest’anno è riflettere su tutto quello che separa queste due feste. Forse i giorni più controversi della seconda guerra mondiale, quelli di cui si parla solo nei libri di storia, e non in tutti. Quelli in cui si gioca il futuro democratico di un Paese che decide di non metterci troppa attenzione in quel processo di trasparenza e di approfondimento necessario per comprendere come davvero l’Italia uscì dalla seconda guerra mondiale. Il 28 aprile, il giorno della morte di Benito Mussolini, fucilato a Giulino assieme alla sua amante Claretta Petacci. Una donna che aveva come unica colpa l’amore per il Duce. Ricordiamo sempre che il nostro Paese è quello che assassinò anche Claretta, e poi diede la pensione alla moglie di Mussolini con voto favorevole del Partito Comunista di Palmiro Togliatti. Tutto giusto, la storia non si riscrive, ma a volte va anche spiegata meglio. Perché la libertà riconquistata ha lasciato anche qualche ombra e forse a distanza di quasi un secolo da quei fatti se un Paese vuole davvero uscirne unito, in un futuro migliore di riempirsi la bocca con parole come libertà e democrazia, dovrebbe avere trovato il tempo anche di rispondere a questi piccoli strani interrogativi della nostra storia patria. Quelli che mostrano il lato ipocrita dell’Italia, quella che conosciamo bene, quella dove si protesta in piazza perché gli stipendi sono bassi, e poi nei partiti politici si assumono le persone con contratti senza garanzia. Quelli dove il sindacato fa battaglie sempiterne per la giustizia sociale e poi all’interno delle sue fila comprende ogni forma di precariato possibile, quasi fosse il dizionario di tutto ciò che esso combatte. Insomma questo 25 aprile non ha stupito, l’Altare della Patria ha atteso il Capo dello Stato con il premier. Proprio come l’anno scorso. Proprio come sarà il prossimo anno. Quello che manca non è la sviolinata retorica su dove stia la verità e la giustizia ma il senso di responsabilità di un Paese che ha accumulato decine di errori e di ritardi in tutto e che oggi ha bisogno di raccontare se stesso fino in fondo, se vuole uscirne migliore e vuole che le nuove generazioni abbiano ancora a cuore il passato da cui proveniamo. Che non serve a fare striscioni una volta all’anno, ma dovrebbe servire a costruire le fondamenta di una democrazia moderna capace di rispettare la pluralità di pensiero e la libertà di espressione e di critica.

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