Economia

Renault cede le attività russe allo Stato

“Deglobalizzazione” al via, la produzione torna a casa

di Alessio Gallicola -


La Renault vende i suoi asset allo Stato russo e la “deglobalizzazione” non è più solo un concetto che si affaccia tra gli analisti per provare a spiegare l’economia mondiale post Covid, orientata negli ultimi mesi dall’andamento del conflitto in Ucraina. L’annuncio odierno del ministero dell’Industria di Mosca conferma che le attività della casa automobilistica francese in Russia diventano di proprietà del governo. La firma degli accordi non si è fatta attendere, la notizia era nell’aria dopo il ritiro della Renault dal Paese in seguito all’invasione dell’Ucraina. Il gruppo transalpino cede a prezzo simbolico la partecipazione del 67,69% in AvtoVAZ a NAMI, un centro di ricerca e sviluppo automobilistico sostenuto dallo Stato e nei prossimi tempi venderà tutta la Renault Russia all’entità Moscow City.

L’uscita costerà alla Renault circa il 10% del fatturato. Nel primo trimestre, la casa francese aveva registrato nel Paese ricavi complessivi per circa 900 milioni di euro, 527 milioni dalla sua partecipazione in Avtovaz e 367 milioni da Renault Russia, cui faceva capo il grande stabilimento alle porte di Mosca dove venivano prodotte Dacia Duster, Renault Kaptur, Renault Arkana e Nissan Terrano.

Dalla Russia arriva, dunque, un esempio concreto di “reshoring”, termine che identifica la rilocalizzazione della produzione di un’azienda dall’estero al Paese d’origine. Il contrario della globalizzazione, che abbiamo vissuto nell’ultimo quarto del secolo scorso e nel primo ventennio dell’attuale. A convincere le aziende a delocalizzare le produzioni era stata una serie di fattori economici, in primis il basso costo della manodopera, e legali, le minori tutele sul lavoro. Il rientro è dettato soprattutto dalla riduzione del divario salariale in Paesi come la Cina, campione assoluto della produzione in tempi di globalizzazione, e di introduzione di legislazioni a tutela del salario minimo.

Ma probabilmente l’aspetto più significativo è rappresentato dalla crisi delle catene del valore, che ha portato la gran parte dei Paesi sviluppati a riflettere sull’opportunità di creare alternative in chiave nazionale. Secondo il Centro Studi di Confindustria, nell’ultimo ventennio sono circa un migliaio le aziende europee che hanno rilocalizzato in patria le loro produzioni, Italia e Francia in testa,

Un avamposto del reshoring è il Regno Unito, dove molte aziende stanno riportando a casa le attività per cercare di affrontare il caos della catena di approvvigionamento causato dalla pandemia, dalla Brexit e, in ultima analisi, dalla guerra. Tre quarti delle imprese hanno aumentato il numero dei loro fornitori britannici negli ultimi due anni, secondo un sondaggio condotto da Make UK, il gruppo commerciale dei produttori. Quasi la metà ha dichiarato di voler aumentare ulteriormente la propria base di approvvigionamento nel Regno Unito nei prossimi due anni. L’interruzione dei processi critici della catena di approvvigionamento “just-in-time” è testimonianza dell’allontanamento dalle fonti di produzione a basso costo in Asia verso fornitori più vicini a casa. Gli analisti di Make UK sono convinti che l’era della globalizzazione potrebbe aver superato il suo apice, incoraggiando molte aziende a lasciarsi alle spalle il just-in-time e abbracciare il “just-in-case”, la strada della convenienza che i governi nazionali sembrano ormai convinti a perseguire per prevenire gli attuali e futuri shock economici.


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