Recensione The Palace: alle repliche l’ardua sentenza
Il guaio delle anteprime è che poi non puoi riguardartele subito se qualcosa non ti torna e a me, di The Palace, qualcosa non torna. Nel senso che lì per lì non mi è piaciuto, o meglio: mi è piaciuto per l’inno all’estetica, per la fotografia, il colore. Però mi è piaciuto senza convincermi. Esco dalla sala un po’ deluso: mi sembrava che mancasse un pezzo alla narrazione. Come se la concentrazione sull’estetica esasperata ma non sorrentiniana si fosse mangiata tutto il resto. Passa un quarto d’ora e tra me e me si compone l’idea che questo sia uno dei film più belli di sempre, che finalmente il contemporaneo ambientato nel passato lustrinato sia raccontato non attraverso forzature di stile e che la macchina del tempo abbia viaggiato con una consapevolezza ragionata. Mi viene quasi un luccichio e mando un whatsapp a Barbareschi.
Scopro qualche ora dopo che il numero non è più quello. La spunta resta una e grigia, un po’ come il mio umore, punitivo perché non ho capito immediatamente la genialità di una pellicola che so già dividerà i cineasti più bacchettoni. Tempo di un cicchetto e ho di nuovo cambiato umore: tutto bello, confermo, qualcosa non mi torna, confermo. Ma è davvero Polanski dietro la macchina da presa? Beh sì, quella quota di grottesco c’è, benché, come è giusto che sia, più matura, più leziosa per il contesto, ma non meno potente. E inizio a mettere tutti i frame in fila. Le calate delle tavole, quelle delle tende, le parrucche e le ciprie. Per un attimo mi devo levare dalla testa qualsiasi riferimento alla Coppola, perché se mi legge Polanski mi blocca su tutti i social, però è inevitabile. E funzionale. Perché mi dà una prima, tardiva chiave di lettura. La Coppola ha raccontato, o meglio, ritratto, una storia che tutti conosciamo. The Palace racconta un mondo più vicino a noi, per quanto baroccone: siamo nel 1999, non nei secoli che furono, e non bisogna farcene una ragione. Il passato si può riprodurre e ce ne possiamo sbeffeggiare anche se puntiamo il dito su un calendario di poco più di vent’anni fa.
Il dispregiativo dell’essere umano nelle sue dimensioni sociali è la sua firma. A novent’anni ha capito che è cosa buona e giusta. L’umorismo è il suo ed è reso in maniera impeccabile con la cura dei personaggi, il loro studio, il loro retropensiero, che ti fa perdonare l’uso della computer grafica laddove il budget per girare le scene avrebbe sforato e che non dà comunque il meglio. C’è tale Bongo, interpretato da Luca Barbareschi, chiamato così per le risapute dimensioni falliche, c’è Fanny Ardant, c’è il botulino, la pelliccia esibita, Mickey Rourke riesumato, il rolex patacca: rischio di trash altissimo. Eppure se dicono trash mi incazzo pure.
The palace: un film che non è un film
Dal punto di vista della rappresentazione di un mondo è meraviglioso. Tutto si svolge in una notte sola. E io lo rivedrei sessanta volte di seguito. “Abbiamo vissuto la fine del secolo come un ponte per liberarci di un mondo senza averlo goduto a pieno. Avremmo bisogno oggi di quello scarto di novecento che, messi come siamo messi, sembrerebbe la porta dell’Eden”- mi sono detto. E mi è venuta in mente Roma com’era e com’è ora. E quella Vienna terrorizzata e divertita dal Millenium Bug in cui un giovane Putin viene introdotto al pianeta Terra, con un montaggio che prende dal vero ad onor del falso, e che, con la giusta dose di distacco dall’oggi, fa ridere prima, disperare poi.
Un film deve darti la capacità di farti un film a tua volta se non non è un film. Per questo motivo credo che, in realtà, anche quella sensazione di capisco non capisco uscita da un film dove apparentemente non c’è nulla da capire, ma tanto di cui riempirsi (sdegno compreso, per i più radical), sia più che voluta e sia un sintomo di genialità in più che si aggiunge alla capacitàdi un regista di trasmettere anche quello che le immagini non mostrano e andare dritto alle corde, che se le sai usare bene possono essere quelle di un violino o di un pianoforte, se non sai come usarle ti ci puoi sempre impiccare. Che forse è un po’ la fine che il regista augura a quei ricchi di cui si fa beffa e che guarda da uno spioncino spalancato in cui vede corpi che non rispondono piùalla testa per la mala chirurgia, e teste che non rispondono ai corpi, perché prese a pianificare altre nefandezze.
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