Quel Don Giovanni tragico di Zubin Mehta
di RICCARDO LENZI
Ultima scena del “Don Giovanni”, che ha inaugurato la stagione del Maggio musicale fiorentino (in replica fino al 12 di questo mese): il Commendatore dopo la sua marmorea apparizione si è dileguato e il Dissoluto è inghiottito fra hollywoodiani bagliori di luce rossa e fumi infernali. L’impaurito Leporello, suo servitore, è terrorizzato, descrive frammentariamente la vicenda e poi si prefigge d’andare in osteria “a cercar padron miglior”. Don Ottavio, dal canto suo, prega Donna Anna di concedergli finalmente la mano (ma lei pare dubbiosa), Donna Elvira dichiara che si ritirerà in un convento, Zerlina e Masetto non vedono l’ora di tornare a casa a spassarsela. Segue la morale, intonata a sei voci: “Questo è il fin di chi fa mal, e de’ perfidi la morte, alla vita è sempre ugual”.
Un finale confermato in questa prima fiorentina sia dal regista, Giorgio Ferrara, creatore di una messa in scena d’ispirazione cimiteriale, ripresa da Stefania Grazioli dal Festival dei due mondi di Spoleto (così, tanto per risparmiare un po’ di danari, in tempo di crisi di bilanci), che dal direttore musicale Zubin Mehta, il cui amore per Firenze è tale che ha accettato il dimezzamento del cachet. Ma non è stato sempre così: la prima dell’opera si tenne a Praga nel 1787 e fino a un secolo fa erano in pochi a conoscere questo epilogo, perché quasi tutti i teatri di lingua tedesca, quelli che più degli altri avevano in repertorio il capolavoro mozartiano, lo dileguavano: troppo “leggero” e frivolo, troppo rivolto al compromesso, in definitiva, commentavano i direttori artistici teutonici ammiccanti, troppo “italiano”, stiracchiato com’era fra la natura libertina di Don Giovanni e una morale complessiva piuttosto invadente, che doveva ribadire i fondamenti cattolici.
Nella prospettiva del protestantesimo veniva invece privilegiato il lato tragico, eroico, della vicenda, quasi che l'”Ateista fulminato” fosse Prometeo. Così fa Mehta, indiano ma di fiera indole mitteleuropea, con studi viennesi presso il luminare Hans Swarowsky, in una classe che comprendeva, fra gli altri alunni, Claudio Abbado e Daniel Barenboim. In quegli anni Cinquanta nella capitale austriaca aleggiava ancora la leggenda delle esecuzioni mozartiane di Wilhelm Furtwängler e tale influenza si percepisce ancora nella visione tragica, con tempi lenti e timbri preromantici, che di quest’opera ha Mehta.
Anche se, leggendo le lettere del Salisburghese e la visione della vita che se ne desume, l’unicità di quest’opera parrebbe proprio nel nesso che lega il comico e il drammatico, nella straordinaria proliferazione di significati intrecciati, dove l’ambivalenza è la sostanza del messaggio. Il comico agisce direttamente sul dramma e la pena che suscita Donna Elvira cresce proporzionalmente quando l’aria “Madamina il catalogo è questo” cantata da Leporello infrange la sua sofferenza personale. Fra i protagonisti vocali Luca Micheletti nel ruolo del titolo si fa apprezzare soprattutto per la presenza scenica, un po’ meno per qualche effetto caricato eccessivamente, con qualche reiterata risatina di troppo.
Certo non ha ricordato quei Don Giovanni composti e nobili, dalle voci di velluto, l’arco sonoro di un violoncello dai riflessi dorati che furono, nella parte, Cesare Siepi e Dietrich Fischer-Dieskau. Autentica beniamina del pubblico del Maggio è Jessica Pratt, ovvero Donna Anna: ha un timbro e uno smalto gradevolissimi ed è un’ottima vocalista, rifinita e garbata. L’Elvira di Anastasia Bartoli è insolitamente battagliera, mentre Markus Werba comeLeporello ha una voce che ricorda quella del suo padrone. Così incisivo e disinvolto, il suo ruolo assume quasi la fisionomia di un doppio di Don Giovanni: sarebbe interessante per una lettura freudiana della vicenda. Indegni dell’oblio la guizzante Zerlina di Benedetta Torre, il nobile portamento d’affinità stilisticamente rossiniana del Don Ottavio di Ruzil Gatin e gli austeri interventi del Commendatore Adriano Gramigni. Le scene e i costumi settecenteschi, debitori verso un’ottica cinematografica, erano di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Maurizio Galante.
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