Quando la vittima è il maschio
di Elisabetta Aldovrandi
Femminicidio è un termine introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell in un articolo del 1992, per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini, per il fatto di essere donne. In pratica, una sorta di marchio che segna il destino della persona per la sua appartenenza di genere indipendentemente dalla sua condotta, dalle sue opinioni, dalla sua origine. In Italia viene commesso un femminicidio ogni due giorni, ora più ora meno.
Si tratta di un dramma sociale figlio di mentalità retrograde che vedono nella donna non una persona da amare bensì un oggetto da possedere, che a volte non si riesce né a contrastare né a prevenire in modo efficace. Ma in ambito domestico non sono soltanto le donne, a cadere vittime del più truce dei reati. Anche gli uomini vengono uccisi.
Si parla, in questo caso, di maschicidio. Un fenomeno sicuramente più raro, ma esistente e sottovalutato nella sua gravità e nelle conseguenze che comporta per i superstiti.
Come nel caso dei femminicidi, anche nei maschicidi si crea il fenomeno degli orfani dei crimini domestici, con la differenza che i figli minori rimangono orfani di padre perché ucciso, e della madre perché assassina del padre.
Il maschicidio non esula dalle dinamiche tipiche dell’omicidio in ambito familiare: si consuma sia in modo violento, senza risparmiare figli che assistono al fatto, sia in modo più subdolo, senza spargimenti di sangue ma utilizzando sostanze venefiche o simulando suicidi. Si è di fronte, in questo caso, a donne manipolatrici, prevaricatrici, dal forte impulso dominatore e prive di empatia di fronte alla sofferenza altrui.
E non di rado si sì tratta di delitti preceduti da situazioni di maltrattamenti in famiglia, spesso non denunciati. Perché, se già è complicato per una donna rivolgersi alle autorità e dover ammettere di essere vittima di violenza in famiglia, per un uomo lo è ancora di più.
Per una mentalità sociale che lo vede come la parte forte della coppia, che non può aver timore di una moglie ancorché arrogante e incline all’uso delle mani, avendo egli la potenza fisica sufficiente per potersi difendere.
E perché, in una società che confonde la virilità con la mascolinità, la forza con la violenza, è inaccettabile pensare che un uomo si ritrovi lividi o graffi perché la partner usa violenza fisica su di lui. O che soffra di depressione perché viene quotidianamente mortificato nelle sue aspettative e denigrato nelle sue capacità. O che non abbia disponibilità del suo denaro perché gestito interamente dalla compagna di vita.
Eppure, lo strumento del cosiddetto “codice rosso”, introdotto con la legge 69/2019, vale per tutti, senza distinzione di genere.
Si tratta di una forma di tutela anticipata per chi denuncia maltrattamenti in famiglia, atti persecutori o violenza sessuale, e che dà diritto alla vittima di essere riascoltata nelle settantadue ore successive all’acquisizione del fascicolo da parte del Pubblico Ministero, allo scopo di verificare la necessità di adottare misure limitative della libertà nei confronti della persona denunciata.
Anche gli uomini hanno diritto di accedervi, e non si deve cadere nella rete di una comunicazione fuorviante, che lo identifica come un mezzo di tutela per le donne vittime di violenza. Perché invece, è per tutte le vittime di violenza. Anche questa, si chiama uguaglianza.
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