Editoriale

Prodi e Donzelli, specchi di una politica debole

di Dino Giarrusso -


Romano Prodi e Giovanni Donzelli sono così diversi che più non si potrebbe: per età, formazione, storia politica e ideologia di riferimento. Nei giorni scorsi, però, si sono resi protagonisti di due vicende sgradevoli, che hanno rivelato dei tratti in comune fra i due. Romano Prodi, due volte Presidente del Consiglio, Ministro, candidato al quirinale, Presidente della Commissione Europea, e mito indiscusso nel tumultuoso centrosinistra italiano (ha battuto due volte Berlusconi, l’unico a fare quest’impresa), è stato avvicinato dalla cronista Lavinia Orefici di Quarta Repubblica. Alla domanda sul Manifesto di Ventotene e su come esso parlava della proprietà privata, Prodi non solo ha risposto con durezza, ma ha anche afferrato i capelli della giornalista, tirandoli per un istante. Niente di grave o violento, ma tutto di sbagliato e fuoriluogo: non si toccano gli altri, non si toccano i capelli di una donna, non si sfoga la propria insofferenza così, non si fa e non si deve fare, punto. Ma soprattutto, se per rabbia o per qualunque altra ragione si perde il controllo, immediatamente dopo ci si deve scusare. Ma proprio senza se e senza ma, subito. Invece da Prodi nemmeno una parola, per giorni. Fiumi di parole, in compenso, a sua difesa. E non dai Jalisse, ma da giornalisti e politici vicini al centrosinistra. Tutti han negato, escluso apriori che Prodi potesse mai tirare i capelli di una giornalista, e quindi accusato di fatto lei d’aver raccontato il falso: la classica vittimizzazione secondaria, che in Italia è spesso la norma. Naturalmente Nicola Porro ci è andato a nozze, specie quando è finalmente uscito un video -meritoriamente mandato in onda da Giovanni Floris- dove è evidente come siano andati realmente i fatti: in direzione opposta alla corrente di quei fiumi di parole. Credo sia uno degli episodi più imbarazzanti in cui siano incappati quelli che Alberto Sordi (e poi Andrea Pazienza) definirebbe i compagnucci della parrocchietta, cioè la bolla di amichettismo che purtroppo domina incontrastata a sinistra benché la realtà (i cittadini, la gente comune, l’opinione pubblica, i voti) ne sia lontanissima. Mentre scriviamo, dunque dopo diversi giorni dal brutto gesto, Romano Prodi offre finalmente le proprie pubbliche scuse ad Orefici. Ma essendo arrivate solo dopo il video che smentisce i difensori d’ufficio, sono scuse poco convincenti. Ha buon gioco dunque Porro ad attaccare tutti quelli che avevano attaccato lui per le critiche a Prodi, ed hanno ragione tutti quelli che si chiedono cosa sarebbe successo se fosse stato un politico di destra a tirare i capelli ad una giornalista di sinistra. Un inferno, sarebbe successo! Articoli ed articolesse, speculazioni sociologiche all’amatriciana sulla difesa della donna minacciata dalla brutalità del fascio di turno, e così via. Peggio ancora sarebbe stato se quel gesto lo avesse compiuto un grillino negli anni in cui il M5S non era alleato della sinistra: lì il fuoco sarebbe arrivato a testate unificate, da sinistra in primis ma anche da destra, e immaginiamo già il plastico di Bruno Vespa a ricostruire lo sfregio del capello, manco fosse stato lo schiaffo di Anagni. Insomma Prodi aveva fornito su un piatto d’argento un argomento forte alla stampa di destra e alla destra politica, quando Giovanni Donzelli ha pensato bene di riequilibrare la bilancia definendo pubblicamente pezzo di merda il cronista del Fatto Giacomo Salvini. Questi ha la colpa, agli occhi di Donzelli, d’aver pubblicato il libro Fratelli di chat, dove raccoglie anni di chat private fra Meloni, Crosetto e i principali esponenti di FdI. Come abbiamo già scritto qui su L’identità, aver pubblicato quel libro è stato giusto giacché quando hai una notizia devi darla, mentre il fatto politico grave (e da tutti ipocritamente ignorato) è che qualcuno degli esponenti di FdI ha tradito Giorgia Meloni e gli altri colleghi di partito, vendendoli proprio al Fatto quotidiano. Dunque Donzelli, che è un politico di peso in FdI, vicino a Meloni ed aggiungo molto abile nel far politica, avrebbe fatto bene a dedicare quell’epiteto a chi dei suoi ha tradito lui, la leader e il partito, non ad un cronista che ha fatto il proprio mestiere. Sono episodi diversi, sono politici diversi, ma un filo rosso li lega: l’insofferenza verso i giornalisti puntuti. Un’insofferenza che svela una classe politica debole (chi si sente forte non deve certo temere la stampa) e nervosa, trasversalmente unito dall’odio per chi non fa da reggimicrofono. Come giornalisti, ma soprattutto come cittadini, ci meritiamo molto di meglio.


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