E’ il primo verdetto per la Caffaro Brescia srl, l’azienda del patron della chimica di base Antonio Todisco, che dal 2011 al 2019 è stata attiva nel capoluogo lombardo nella produzione soprattutto di pastiglie di cloro e, tuttora, è al centro di un maxi-processo che deve ancora decollare dopo il rinvio del 16 luglio scorso, e che tra gli imputati vede proprio il noto imprenditore pisano. Il tribunale di Brescia ha emesso le prime condanne per la gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi nei confronti dei manager Alessandro Quadrelli, Alessandro Francesconi e Vitantonio Balacco. La giudice monocratica Lorenza De Nisi ha inflitto a ciascuno 6 mesi di reclusione (pena sospesa) e una provvisionale subito esecutiva di 10 mila euro a favore della Provincia di Brescia che si era costituita parte civile. Invece, l’industriale Todisco, 68 anni, in questo filone è stato prosciolto per intervenuta prescrizione, vale a dire il tempo ha cancellato il reato per il quale al contrario i suoi dirigenti sono stati condannati. Si trattava dello smaltimento non avvenuto in tempo, dunque in maniera illegale, di 12 vecchi trasformatori imbottiti di bifenili policlorurati utilizzati come isolanti. Nove di questi erano stati utilizzati nel ciclo produttivo, mentre gli altri tre nel pompaggio della falda acquifera eseguita per tenere sotto controllo l’inquinamento che tiene in ambasce la Leonessa d’Italia. Le difese dei manager Quadrelli, Francesconi e Balacco hanno preannunciato ricorso in appello contro il verdetto che ha tenuto conto del fatto, come affermato nella requisitoria dal pm Carlo Pappalardo, che in base agli accordi la società di Todisco aveva l’obbligo di smaltirli entro il 2019. Del resto, la giudice De Nisi scrive nei motivi che la condotta degli imputati è stata illegale perché “non si identifica né si esaurisce con l’omesso smaltimento entro il termine previsto, ma si sostanzia in un quid pluris consistente nel recupero dei trasformatori rifiuto mediante l’utilizzo per la distribuzione dell’energia elettrica e l’emungimento delle acque di falda”. I tre manager, inoltre, con lo stesso Todisco sono a processo per il filone principale del caso Caffaro Brescia. Per i quattro lo scorso aprile è iniziato il processo davanti al tribunale collegiale presieduto da Chiara Minazzato. Sono accusati a vario titolo di disastro e inquinamento ambientale perché nonostante gli accordi sottoscritti con il commissario straordinario di nomina governativa Marco Cappelletto della Caffaro – assolto dal gup l’11 giugno scorso con il rito abbreviato, assieme all’altro commissario Roberto Moreni e al procuratore speciale Alfiero Marinelli per ipotesi di reato meno pesanti – gli imputati non avrebbero garantito “mediante l’implementazione del sistema di abbattimento degli inquinanti ed un più incisivo pompaggio delle acque, l’efficienza della barriera idraulica denominata MISE”. La tesi della Procura della Repubblica, guidata da Francesco Prete, è contestata da Todisco e i dirigenti, i quali sostengono che lo storico sito chimico era già inquinato e che loro non avrebbero aggravato la situazione. Al contrario per i magistrati inquirenti Todisco avrebbe peggiorato il “cancro ambientale” per ragioni di tornaconto imprenditoriale, tanto che il sito venne sequestrato all’inizio del 2021 quando il gip Alessandra Sabatucci firmo i provvedimenti di sequestro. Oltre all’impianto furono sigillati anche 7,7 milioni di euro su conti aziendali, di cui 3 milioni scongelati per eseguire i lavori di bonifica. Le consulenze di parte della Procura hanno fatto emergere che tra il 2004 e il 2019, come sottolineano i tecnici dell’Arpa, la concentrazione di mercurio nel terreno su cui sorgeva il reparto del clorosoda è aumentata, con presunte responsabilità di Todisco, presidente del Cda della Caffaro Brescia che gestì l’impianto come detto dal 2011, e dei manager Quadrelli, Francesconi e Balacco, fidati collaboratori di Todisco, ritenuti responsabili del mancato smaltimento dei trasformatori. Per comprendere le dimensioni dell’inquinamento la cui origine affonda anche nei decenni precedenti, visto che quello di Brescia è un cosiddetto “sin” (sito di interesse nazionale) il gip Sabatucci ha scritto che “il disastro innominato riguardava l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque sotterranee e delle rogge superficiali ove aveva sede lo stabilimento chimico di via Nullo 8, nonché delle zone agricole ad essa limitrofe per un territorio complessivo di 262 ettari”. Todisco, il cui processo proseguirà in autunno, respinge le accuse.