Politica

PRIMA PAGINA – Ecco la struttura del partito di Conte: 96% nominati da lui

di Dino Giarrusso -


Gli iscritti al M5S, cui viene chiusa la strada da essi scelta agli Stati Generali, si ritrovano a votare in un colpo solo Conte leader (senza altri candidati, dunque tecnicamente un plebiscito) e il suo Statuto. I sì stravincono come era prevedibile, ma forse non tutti hanno letto lo Statuto, che contiene già i semi di tutto quel che in pochi anni (pochi mesi in realtà) stravolgerà totalmente il movimento, portandolo peraltro ai suoi peggiori risultati elettorali di sempre. Conte, che lo stila, ha il merito di provare a definire una serie di figure intermedie che al M5S mancavano come l’acqua nel deserto, ma ad un tempo il leader designato dal gotha grillino in barba al volere degli iscritti, azzera quasi del tutto ogni scampolo di democrazia interna. Le figure intermedie infatti ci sono, ma sono tutte nominate da lui, quindi da lui dipendono e a lui rispondono: a che servono dunque, se non a fungere da corifei?
Anche qui non stiamo esponendo una nostra opinione, ma raccontando dei fatti: analizziamoli nel dettaglio. QUI L’ORGANIGRAMMA DEL M5S

Possiamo vedere in concreto in cosa consiste l’organigramma del M5S così da spiegare cosa sia realmente accaduto. Già le nude cifre fan risaltare immediatamente agli occhi l’accentramento di ogni potere -con rarissime eccezioni- nelle mani del Presidente. Le figure previste dallo Statuto scritto da Conte sono un Presidente, un Garante, 5 vicepresidenti, 3 delegati (comuni, regioni ordinarie, regioni a statuto speciale), 1 organo di controllo, 3 probiviri, 3 membri comitato garanzia, 4 rappresentanti macroaree (nord, sud, centro, isole), 80 membri dei comitati tematici, 137 referenti territoriali. Tolti Presidente e Garante ci sono in totale 236 figure, teoricamente una buona struttura per rappresentare le varie istanze, le diverse opinioni e il volere della base, cioè degli iscritti. Ma come vengono scelte queste 236 figure? Quelle eleggibili dagli iscritti con una libera elezione aperta a chiunque voglia candidarsi, sono solamente 4, cioè i rappresentanti delle macroaree. Quattro eletti liberamente su duecentotrentasei (l’1,7%!) e già questo fa impressione per chi propaganda di volere un movimento che sia “espressione delle istanze della comunità”. Poi ci sono 6 membri ratificati dalla base su proposta del garante Grillo (probiviri e comitato garanzia) e ben 226 membri nominati dal Presidente! Avete letto bene: 226 posizioni su 236 sono di nomina diretta del Presidente, il 96% del totale: gli iscritti al solito sono ridotti a premi-bottoni che devono ratificare e avallare le nomine dall’alto. Conte dunque nomina direttamente non solo i suoi 5 vicepresidenti, ma anche i responsabili di qualunque area tematica e persino i singoli membri di ciascun comitato tematico, nonché tutti i referenti territoriali, quelli regionali e quelli provinciali. Nei fatti, chiunque abbia un ruolo all’interno dell’organigramma cinquestelle lo ha grazie a Conte, e dunque è un uomo di Conte: agli iscritti non rimane nulla, benché dagli Stati Generali emergesse proprio la richiesta di poter scegliere direttamente i propri referenti territoriali. È uno strapotere che non ha precedenti, che non è paragonabile a quello di nessun altro leader in nessun altro partito italiano. Ma anche su questa presa del potere, su questo incredibile passaggio dal movimento che lasciava decidere tutto o quasi online, al partito che improvvisamente mette tutto il potere in mano ad un uomo (il quale peraltro di quel partito non aveva mai fatto parte!) c’è stato un silenzio incredibile. Il silenzio viene dalla stampa “avversa”, la quale continua invece ad attaccare Conte quasi sempre per sciocchezze (la pochette, l’accento, il “gratuitamente”, il desiderio di tornare a Palazzo Chigi come se non fosse normale) ma non gli chiede mai, né sui giornali né in TV, conto di questa presa del potere così smaccata. E silenzio vieppiù arriva da parte della stampa “amica”, sempre prontissima a fare le pulci ad ogni processo opaco negli altri partiti (vedi gli attacchi del Fatto sullo strapotere interno di Berlusconi, di Renzi, di Salvini, di Meloni…) ma cieca, muta e adorante nei confronti di questo sopraggiunto feudalesimo accentratore che ha sconquassato il fu movimento.
È incontrovertibile che Conte disegni una struttura di partito nella quale praticamente tutti sono nominati da lui, con la conseguenza palpabile che inizia una gara ad allisciarsi il Presidente, e in breve muore ogni pluralismo dentro al Movimento. Un esempio importante, che con il senno di poi si può leggere come un secco “avvertimento” di Conte a tutti, è la scelta dei VicePresidenti. Conte non seleziona chi aveva più consenso, chi era più noto o chi aveva una militanza più antica. Conte sceglie Mario Turco, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Michele Gubitosa: nessuno di questi quattro avrebbe avuto la benché minima speranza di arrivare nemmeno nei primi venti, se ci fosse stata un’elezione aperta, se i vice li avesse scelti la base. Moltissimi attivisti non sanno nemmeno chi siano queste quattro persone che improvvisamente rivestono un ruolo così importante, ed anche molti parlamentari non li conoscono. Il messaggio è chiaro: qui comando io, non importa quanto pesiate nella realtà, se volete far carriera state con me. E questo messaggio è confermato dalla nomina del quinto vicepresidente Paola Taverna. Dimaiana di ferro, legatissima a Crimi e Cancelleri (con il quale si esibisce in un imbarazzante video di balli in auto qualche mese dopo), Taverna è una di quelle che “comanda” nel Movimento, benché lo stesso non abbia avuto fino ad allora in teoria ruoli di vertice ufficiali. Improvvisamente molla Di Maio per andare con Conte (come faranno tantissimi, da Todde a Cancelleri, da Castellone a Floridia) e lui la premia non solo con un ruolo di primissimo piano, ma dandole una considerazione ed un peso che non riserva a nessun altro. Con la presa del potere assoluto da parte di Conte, insomma, con l’obbligo di essere nominati personalmente da lui per avere un qualsivoglia ruolo, muore contestualmente ogni possibile pluralismo, ogni critica, ogni dissenso interno. Per questo il disegno dello Statuto fatto dall’ex-Presidente del Consiglio era particolarmente astuto e si è rivelato tremendamente efficace. Il M5S somiglia sempre più ai partiti che aveva sempre combattuto e contrastato, offrendo un’alternativa ad essi anche nelle dinamiche interne e nella scelta degli eletti. Invece, improvvisamente, diventa persino peggiore degli altri. Vediamo come…

Alle elezioni un disastro dietro l’altro, ma il disegno è comandare, non vincere. E omettere scomode verità

Un partito che sia democratico, che abbia a cuore le istanze e le preferenze degli iscritti, procede ad esempio con elezioni democratiche del segretario regionale, e spesso ha organi intermedi che fanno votare dagli iscritti (o eleggono tramite i delegati) anche i responsabili provinciali e che insieme scelgono le liste dei candidati: dalla sezione di paese alla direzione nazionale, c’è una partecipazione della base, più o meno determinante. Nel Movimento Cinquestelle pre-Conte vigeva invece l’auto organizzazione e per le elezioni chiunque si poteva candidarsi e la lista veniva compilata secondo i risultati delle primarie online (chiamate anche parlamentarie, europarlamentarie, regionarie, etc). Questo metodo però mostrava delle fragilità e dei pericoli: non favoriva nuovi ingressi né partecipazione in tutti quei territori dove chi era arrivato prima sperava grazie a ciò di mantenere rendite di posizione e poltrone prestigiose. Quell’anarchia andava normata, ma quel che succede è una rivoluzione da regime personale: nel Movimento contiano si mutilano in breve anche le parlamentarie, si perdono consensi, si epurano i non allineati, si premiano ad ogni costo gli esponenti vicini al Presidente.
Guardiamo ai fatti, come al solito: a settembre Conte si è da poco insediato, e i risultati elettorali sono in netto calo. Si perdono i comuni di Torino, Roma (la Raggi non è mai stata amata da Conte, né da Taverna e Lombardi, e fa una corsa quasi contro il proprio stesso partito), Marino, Carbonia, Porto Empedocle, Favara e praticamente tutti i comuni dove c’era un sindaco grillino, con risultati tremendi anche nei consigli comunali: nel Lazio ad esempio il M5S passa da 73 a 10 consiglieri comunali, e a Roma perde anche tutti i Municipi franando anche in tutte le regioni ove si vota. Conte è arrivato da poco a capo del M5S, ma la risposta che dà non offre risultati entusiasmanti: accentramento delle decisioni e scelta dall’alto sia dei candidati che delle alleanze, senza ascoltare nessuno che non sia il proprio cerchio magico. Ma così i risultati peggiorano ancora: nel 2022 Conte, che delega alla vicepresidente Paola Taverna le decisioni sulle comunali, fa precipitare i consensi anche nelle zone più “grilline” d’Italia come la Sicilia. A Palermo la base compatta vuole un proprio candidato, ma Conte e Taverna impongono di andare col PD, ed il risultato è il passaggio dal 13 al 6 per cento. Va peggio a Messina, dove l’alleanza col PD porta il M5S al 4,2% e fuori dal consiglio comunale, ma il capolavoro al contrario lo si fa a Paternò, terzo comune più grande fra quelli al voto, dove dall’alto si sceglie di andare (con un simbolo civico, ma con tutti i consiglieri comunali uscenti in lista e la visita ai candidati di Conte, Catalfo, etc) in una coalizione dove c’è anche Totò Cuffaro ed il segretario regionale della sua nuova Democrazia Cristiana, tal Condorelli. Questa scelta causa defezioni e violente diatribe interne, che Conte seda con il solito “comando io, zitti”. Il risultato è che la lista rimane al di sotto del 4% e non elegge nessun consigliere comunale da cinque che ne aveva.
Un disastro epocale, una debacle che però segna un punto di non ritorno, anche dal punto di vista della comunicazione. Arrivato in Sicilia per aiutare le liste M5S, Conte infatti parte da Palermo e attacca a testa bassa il centrodestra, che proprio a Palermo è alleato con Cuffaro. La cosa surreale è che a pochi chilometri di distanza, nella stessa tornata elettorale, Conte benedice (in silenzio) l’alleanza Cuffaro-Cinquestelle a Paternò. Nessun cronista però ne parla, nessuno evidenzia l’incredibile incoerenza di chi accusa gli avversari di fare alleanze col partito di un pregiudicato, quando fa la stessa identica cosa in altro comune. Il Fatto Quotidiano finge di non vedere, e non riporta nemmeno il risultato di Paternò nel pezzo riassuntivo su quella tornata elettorale, come se il popoloso comune etneo non esistesse. Anche nella decimata base grillina (le troppe forzature avevano causato molti allontanamenti) di questa scelta incredibile non si parla. Così Conte comprende che può fare e dire ciò che vuole: l’atteggiamento nei suoi confronti – fra chi è rimasto nei Cinquestelle – è di tipo fideistico, acritico, adorante, quasi religioso. Fra i parlamentari e gli aspiranti tali è ancora più deciso il totale asservimento e l’impossibilità di contrastare il dominio contiano, perché chi dissente rischia di compromettere la prossima elezione, dunque vige il terrore. A questo punto a Conte non rimane che l’ultimo step per prendersi tutto: circondarsi anche in Parlamento di fedelissimi, orientando i risultati grazie alla possibilità di piazzare chi vuole dove vuole, poi fare lo stesso in Europa e nelle regioni, e infine liberarsi di Beppe Grillo, l’unico che ancora -a metà 2022- ha voce in capitolo e seguito reale.
Nell’ultima puntata di questo reportage, vedremo insieme come si è arrivati a questa “Assemblea Costituente” e commenteremo insieme i risultati della stessa.


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