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PRIMA PAGINA – Fast fashion: costi poco, ma quanto inquini?

di Marina Cismondi -


Cosa accomuna il quasi ottantenne svedese Stefan Persson ed il quasi novantenne spagnolo Amancio Ortega Gaona, nomi non immediatamente riconducibili a celebrità? Lo svedese è il figlio di Erling Persson, fondatore della compagnia di moda e di negozi H&M. Stefan guida l’azienda fondata dal padre dal 1982 e ne è anche il principale azionista. Da numerosi anni a questa parte è uno degli uomini più ricchi del mondo e in assoluto la persona più ricca della Svezia. Secondo la rivista statunitense Forbes possiede un patrimonio personale di 19,4 miliardi di dollari.

H&M (Hennes & Mauritz) che nacque nel 1947, con l’apertura del suo primo negozio in una cittadina svedese, ha attualmente oltre 4.000 punti vendita nel mondo ed ha fatturato nel 2024 più di 20 miliardi di euro. Lo spagnolo è il fondatore della catena internazionale di negozi di abbigliamento Inditex, proprietaria del marchio Zara e di altri numerosi marchi nel settore abbigliamento e tessile. Secondo Forbes è al nono posto nella classifica dei più ricchi al mondo, nonché il più ricco di Spagna, con un patrimonio di 124,3 miliardi di dollari. Il primo negozio di abbigliamento Zara aprì nel centro di La Coruña nel 1975, ora i punti vendita del gruppo Inditex sono oltre 7 mila con un fatturato vicino ai 30 miliardi di euro.

Quindi questi due magnati multimiliardari sono accomunati dalla “fast fashion”, moda veloce, definizione che descrive la produzione e la vendita di grandi quantità di capi di abbigliamento caratterizzati da un basso costo e da continui cambi di collezioni, decine e decine ogni anno.
Tutto oro quello che luccica? Per le aziende ed i loro azionisti senza alcun dubbio, ma non si può affermare la stessa cosa per i lavoratori e per l’ambiente. Dietro alle esposizioni di capi, tessuti e prodotti per la casa sugli scaffali e sugli allettanti shop on line, le zone d’ombra sono molte, alcune terribili.
Come il crollo del Rana Plaza, un edificio commerciale fatiscente che collassò nel 2013 a Savar, un sub-distretto di Dacca, capitale del Bangladesh. Vi furono 1.134 vittime e più di 2.500 feriti. L’edificio, non idoneo a sostenere il peso di macchinari, merci e fino a 5 mila addetti, ospitava fabbriche tessili ed anche se il palazzo aveva già dato segni di cedimento, gli operai furono costretti dai titolari a recarsi comunque al lavoro. Le fabbriche realizzavano capi di abbigliamento per decine di marchi occidentali, fra i quali Benetton, Auchan, Carrefour, Primark ed anche H&M e Zara. La retribuzione degli operai era intorno ai 30 euro al mese. Solo sette dei 29 clienti abituali delle fabbriche tessili contribuirono ad un fondo per risarcire i familiari delle vittime.

Da quella strage qualche miglioria c’è stata, ma il Bangladesh (come altri Paesi in Asia, Africa e America Latina) resta il “discount” della manodopera, nell’indifferenza delle conseguenze umanitarie: la forza lavoro nel tessile è quintuplicata nell’ultimo decennio ed è schiavizzata, costretta a 14 ore lavorative al giorno per una paga da fame. Ma oltre a queste forme di sfruttamento (peraltro riscontrabili, purtroppo, non solo nel settore tessile) le conseguenze per l’ecosistema stanno via via diventando sempre più devastanti. La crescita della moda economica e veloce ha svolto un ruolo fondamentale nell’aumento dei consumi: la produzione globale di fibre tessili è passata da 58 milioni di tonnellate nel 2000 a 109 milioni nel 2020 e si stima un aumento a 145 milioni di tonnellate per il 2030. I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono circa 11 kg, che per lo più vengono inceneriti o portati in discarica.

Ma le discariche possono assumere aspetti disastrosi per l’ambiente. In Cile, alla periferia di Alto Hospicio, da una quindicina di anni si accumulano – illegalmente – enormi quantità di abiti usati e nuovi: se ne stimano più di 40 mila tonnellate. Arrivano dagli Stati Uniti, dall’Europa e dall’Asia. Per la maggior parte capi in tessuto sintetico che rilasciano sostanze inquinanti nel suolo (o nell’aria, quando vengono incendiati) e si decompongono in 200 anni. Ed anche in Ghana crescono le discariche a cielo aperto: arrivano ogni settimana milioni di abiti, solo in minima parte riutilizzabili.

La produzione tessile ha poi bisogno di quantità smisurate di acqua: alcune stime indicano che per fabbricare una maglia di cotone sono necessari 2.700 litri di acqua dolce, 10 mila litri per un paio di jeans. Si calcola inoltre che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa dei vari processi produttivi e che il lavaggio di capi sintetici rilasci ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari. Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’UE nel 2020 hanno anche generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona, pari a 121 milioni di tonnellate in Europa.

E per finire, secondo l’ inchiesta dell’Ong inglese Earthsight, sarebbe dimostrato che i due brand di moda retail più diffusi al mondo sarebbero direttamente collegati alla devastazione della savana del Cerrado in Brasile. Le multinazionali del fast fashion contribuirebbero alla deforestazione delle terre, disboscate illegalmente, utilizzando 800 mila tonnellate di cotone coltivato dalle due principali aziende di ricchi proprietari terrieri, SLC Agrícol e il Gruppo Horita, con l’utilizzo di miliardi di litri d’acqua estratti dai fiumi e scaricando, ogni anno, 600 milioni di litri di pesticidi nel Cerrado. Scontato che i diritti dei lavoratori anche qui siano calpestati. Concludiamo citando il proverbio attribuito ai nativi americani: “Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, pescato l’ultimo pesce, inquinato l’ultimo fiume, solo allora vi accorgerete che il denaro non si può mangiare”. E neanche le t-shirt.


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