Attualità

PRIMA PAGINA – Caso Garlasco 18 anni dopo: dubbi, omissioni e verità mancate

di Marina Cismondi -


Il delitto di Garlasco, nonostante siano ormai passati quasi 18 anni, non ha mai smesso di dividere l’opinione pubblica sull’innocenza o sulla colpevolezza di Alberto Stasi, colui che – secondo la verità giudiziale – è l’assassino della sua fidanzata, Chiara Poggi. Le indagini riaperte lo scorso mese, che vedono indagato Andrea Sempio, un amico del fratello di Chiara, hanno riattizzato le dispute fra le due fazioni, invadendo la carta stampata di tutta la nazione e gli innumerevoli programmi televisivi e canali YouTube dedicati al crimine. Si è riaperta la caccia al mostro, costantemente braccato da stuoli di cronisti armati di telecamere e microfoni, smaniosi di cogliere, interpretare e mandare in onda ogni minima espressione facciale dell’indagato. Stesso film già visto diciotto anni fa con Stasi, involontario protagonista. Difficile prevedere se a distanza di così tanto tempo le indagini e le perizie porteranno a qualcosa di concreto, ma quello che sta emergendo fa rabbrividire: indagini raffazzonate, errori madornali, inadempimenti, sospetti sull’operato di avvocati, carabinieri e procuratori. Lo stesso ex comandante dei carabinieri di Garlasco, il maresciallo Marchetto ora in pensione, ha rilasciato interviste esprimendo seri dubbi su come furono condotte ai tempi le indagini, dichiarando che non gli fu permesso di seguire altre piste dai suoi superiori. È perciò indispensabile ripercorrere la triste vicenda per rendersi conto che, come nei casi di Massimo Bossetti e di Olindo e Rosa, i più che ragionevoli dubbi sono tuttora da chiarire. Era il 13 Agosto 2007 quando, alle 13,50, Stasi entrò nella villa dei Poggi scavalcando la cancellata, preoccupato perché la fidanzata non rispondeva al telefono. Trovò Chiara riversa sulla scala che portava al seminterrato e pozze e schizzi di sangue ovunque. Scappò, terrorizzato, verso la caserma dei Carabinieri e chiamò il 118. La registrazione di quella chiamata, trasmessa in televisione decine e decine di volte, fu il suo primo passo verso la galera. Perché era così freddo? Perché era scappato? Perché non aveva tentato di soccorrerla? Doveva essere lui l’assassino. E si incominciò a cucirgli addosso indizi più o meno probabili. Non si cercarono prove per individuare l’assassino, si cercò di adattare gli indizi a quello che doveva essere il colpevole. Secondo il medico legale che fece l’autopsia, Chiara fu uccisa fra le 10,30 e le 12, più probabilmente dopo le 11. Però quando si scoprì che Stasi era stato davanti al suo computer ininterrottamente dalle 9 e 35 alle 12 e 20, incredibilmente l’ora della morte fu anticipata, dallo stesso medico, in un momento indefinito fra le 9 ed il resto della mattina. E, dato che la vittima aveva staccato l’antifurto alle 9 e 12, si decise che fu Stasi ad ucciderla nello spazio temporale di 23 minuti, inclusi i 6/7 minuti impiegati per tornare a casa in bici ed accendere il suo pc alle 9,35. E se la bicicletta nera da donna appoggiata fuori da casa Poggi, vista e descritta minuziosamente da una testimone, non aveva le caratteristiche di una bici nera in possesso degli Stasi, poco importava. Si decise che era la testimone a sbagliare. Visto che fu trovato il DNA di Chiara sui pedali della bici da uomo solitamente usata da Stasi, si decise che erano stati sostituiti i pedali con quelli della bici nera, anche se una perizia chiesta dall’accusa dimostrò che era assolutamente impossibile farlo. Ma ancora oggi famosi criminologi ed opinionisti vanno in televisione ad indicare come insindacabile prova schiacciante lo scambio dei pedali. Si decise che l’impronta di una suola sulla scena del crimine doveva essere di Stasi, nonostante che quelle scarpe non siano state mai trovate. Si stabilì anche che Stasi si era lavato dal sangue in un lavandino, ripulendolo poi perfettamente, tanto da non lasciare alcuna traccia ematica nel sifone e nelle tubature. Cosa impossibile a detta degli esperti. Infine si decise che Chiara aveva aperto la porta ad una persona da lei conosciuta, poiché era in pigiama e quella persona poteva solo essere Stasi. Perché non qualcun altro con cui era in confidenza? Perché non avrebbe potuto aprire per far uscire i gatti senza poi richiudere a chiave la porta? Solo ora si scopre che venne invece ignorato tutto ciò che non suffragava la tesi della colpevolezza di Stasi, presente sulla scena del crimine: un posacenere con della cenere (Stasi e Chiara non fumavano), due barattoli di Fruttolo vuoti e due cucchiaini (mai analizzati), decine di impronte mai attribuite. Venne anche ignorata la testimonianza di Marco Muschitta che si presentò spontaneamente. Dichiarò che quella mattina, intorno alle 9,30 vide una ragazza bionda su una bicicletta nera vicino alla casa dei Poggi identificandola come la cugina di Chiara, Stefania Cappa. La notò poiché aveva un’andatura a zig zag dato che teneva in mano un attrezzo da camino con una decorazione a forma di pigna. Ma il verbale delle sue dichiarazioni venne interrotto per circa un’ora e quando si riprese a verbalizzare Muschitta ritrattò, dicendo di essersi inventato tutto. Successivamente, intercettato (perché intercettare un mitomane?) in una telefonata con il padre, Muschitta confermò di aver detto ciò che aveva visto. Torna in mente la testimonianza di Enrico Tironi nel caso Yara Gambirasio: anche lui ritrattò la sua testimonianza ed anche lui, prima di lasciare l’Italia, disse: “io ho detto quello che ho visto ed ho visto quello che ho detto”. Va infine ricordato che nel giudizio definitivo della Cassazione, il procuratore Cedrangolo, rappresentante l’accusa, disse ai giudici: “Io non sono in grado di dire se Alberto Stasi è colpevole o innocente. E neanche voi”. Però Stasi è in carcere, condannato al di là di ogni ragionevole dubbio.


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