Pressione fiscale al top ma mezza Italia non paga le tasse
L’Italia è quel Paese in cui la pressione fiscale vola al 42% ma dove lo Stato non sa né riesce a incassare tasse e imposte. È un problema vero, reale. C’entrano poco i luoghi comuni, non è un problema legato all’eterna furbizia attribuita al contribuente italiano. È un guaio perché più l’Erario non incassa, più aumenterà la pressione fiscale nel tentativo di rimpinguare le casse, sempre esauste, di un Paese eternamente indebitato.
L’ultima relazione presentata al Cnel dal centro studi di Itinerari previdenziali insieme a Cida è agghiacciante. Il confronto è impietoso se si assumono i dati Irpef. Il gettito totale, calcolato sulle dichiarazioni 2022 relative, dunque, all’anno 2021, è pari a 175,17 miliardi, 157 di imposta ordinaria, 12,83 di addizionali regionali e 5,35 per quelle comunali. Ebbene, la sola Lombardia, che scuce 40,3 miliardi, “paga” più di tutto il Mezzogiorno messo insieme (36,3 mld) e dell’intero Centro Italia (38,2 mld). Il Nord, in generale, paga poco più di cento miliardi di Irpef. Da solo. Il Sud, invece, non contribuisce che per poco meno del 21%. Ma il dramma è ancora un altro: poco meno di un cittadino su due, per la precisione il 47% degli italiani, non dichiara redditi. In pratica, mezza Italia lavora e l’altra metà resta in attesa di un bonus, di un sussidio, di un modo per sfangarla perché di investimenti strutturali capaci di creare, davvero, ricchezza e lavoro, non ce n’è. Il peso delle tasse, dunque, grava quasi tutto sulle spalle di quel che resta della classe media, coloro che dichiarano da 35mila euro (lordi) a salire. “Non è accettabile che poco più del 13% della popolazione si faccia carico della quasi metà degli italiani che non dichiara redditi e trova benefici in un groviglio di agevolazioni e sostegni, spesso concessi senza verificarne l’effettivo bisogno”, tuona Stefano Cuzzilla, presidente Cida: “Siamo ormai in presenza di due forti disuguaglianze: da un lato abbiamo i contribuenti onesti, dall’altro mezzo Paese dimenticato, che si pensa di aiutare con i sussidi, invece che con gli investimenti”. L’errore, marchiano, è quello di credere “che le disparità che esistono in questo Paese facciano male solo a chi si trova sui gradini più bassi della scala reddituale”. In realtà, puntualizza Cuzzilla, “fanno male al sistema: se perdiamo il ceto medio perdiamo stabilità sociale e ipotechiamo il futuro”.
Nulla di nuovo sotto al Sole. L’Italia è un Paese che sfrutta, come un limone, quel che rimane della sua classe media. Per tutti gli altri, c’è sempre una pezza mai una soluzione. Un bonus, una sanatoria, una rottamazione. A proposito, all’ultima – enumerata quater, chissà quante ne arriveranno ancora – hanno aderito, secondo quanto ha riferito il viceministro all’Economia Maurizio Leo, ben 3,8 milioni di cittadini. Ora bisognerà verificare quanti di loro hanno effettivamente pagato la prima rata (con scadenza slittata dal 31 ottobre al 6 novembre) e, soprattutto, quanti pagheranno la seconda rata, che scadrà il 30 novembre. Per molti osservatori, non solo “interessati” politicamente, c’è troppo poco spazio tra la prima e la seconda rata che, peraltro, sono le più robuste, di solito, dei piani di rientro approvati dall’Agenzia delle Entrate. E il rischio che “salti” la seconda rata sarebbe elevato per molti dei contribuenti che hanno chiesto dilazioni al Fisco.
Ma se tutto andrà bene, come invece spera il viceministro, il governo si ritroverà in cassa un “tesoretto”. Un brodino caldo, sicuramente confortante in questi tempi di magra. Ma, sicuramente, non un fatto risolutivo, un cambio di prospettiva che potrebbe aiutare il Paese a uscire dalle secche. Insomma, non è il Bond Tax Credit che potrebbe, davvero, cambiare il rapporto tra contribuente e Fisco garantendo contestualmente allo Stato entrate certe e una visione nuova sul debito. E, soprattutto, sanare le storture di un Paese in cui la pressione fiscale è alle stelle ma metà dei cittadini non dichiarano redditi, dove la classe media è in via di estinzione e su di lei continua a gravare il peggior carico tributario, dove si continua a credere, da decenni, che si possano risolvere problemi epocali, come il ritardo del Sud, a raffiche di bonus spacciati per riforme.
Poste pagherà l’una tantum promessa, ad agosto scorso, ai suoi 12mila dipendenti. L’importo sarà di mille euro. L’amministratore delegato Matteo Del Fante ha dichiarato che sarà possibile onorare l’accordo grazie ai “solidi risultati raggiunti nei primi nove mesi dell’anno, pari a 8,9 miliardi di ricavi” anche grazie “alla dedizione e alla resilienza” dei dipendenti “che lavorano instancabilmente per soddisfare le esigenze degli italiani”.
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