Povero calcio senza ricavi: in Europa da terza fascia
di ANTONIO GUIZZETTI
Il calcio della Lega Serie A italiana si inserisce in uno scenario europeo (maggiori cinque Leghe) del business dove il fatturato, negli ultimi cinque anni, cresce attorno al 5% l’anno, con differenziali molto forti di crescita, dal 9% della veloce Spagna al modesto 2% della lenta Italia (la nostra Lega cresce meno di tutte le altre).
Il maggiore sostegno allo sviluppo della dimensione di fatturato dell’industria europea del calcio è fornito dai diritti audiovisivi, che crescono di circa il 9% l’anno, dal 13% – 15% di Spagna e Germania al 2% – 3% di Francia e Italia (sembra quasi la classifica dei vincitori. Nell’aggregato delle cinque maggiori Leghe europee (Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, Francia in ordine di giro d’affari) gli introiti dei diritti audiovisivi rappresentano più della metà dei ricavi complessivi (quasi il 60% in Italia); un terzo circa arriva dalle sponsorizzazioni e attività commerciali (anche da noi). Gli incassi da gare sono oramai molto marginali ovunque, poco sopra il 10%.
A livello di risultato operativo, le cinque maggiori leghe chiudono con una perdita che si può stimare attorno ai €500 – 600 milioni, la qualcosa rende difficile, ancorché riferita a un periodo molto travagliato, affermare che l’industria del calcio sia molto attrattiva per gli investitori, se non accompagnata da altri orizzonti di business, immobiliari in particolare. Del resto, prendiamo in considerazione la squadra per tanti versi leader del mondo globale del calcio: il Manchester City. La società capitalizza circa £3 miliardi, con ricavi di circa £0,6 miliardi e quindi un rapporto capitalizzazione di borsa – ricavi molto elevato, oltre cinque volte, verso una media di settore attorno a due – tre volte, per società diciamo di prima fascia europea. Il Risultato Operativo del Manchester City è attivo per circa £87 milioni senza computare l’attività relativa al Player Trading, ma diventa negativo per £59 milioni considerando anche questa voce e gli ammortamenti che ne derivano. A livello di risultato netto, si passa da un risultato positivo di £79 milioni a uno di appena £2 milioni. Ora, sembra evidente che per mantenere molto alta la competitività sportiva di un club come il City, ci si deve impegnare molto in attività di mercato costose, con rose di elevato valore, ma anche molto dispendiose in termini di salari e ammennicoli vari.
Quanto valgono le italiane
Vediamo allora come possiamo avvicinarci a stimare, seppure molto grossolanamente e con pochi dati a disposizione, il potenziale valore di una squadra italiana di calcio. Partendo dal mercato, nei limitatissimi limiti del possibile. In Italia ci sono solo due club quotati: Juventus e Lazio. A settembre 2022, la nuova proprietà della Roma ha infatti concluso il delisting della società. Useremo comunque anche i dati di borsa della Roma per allargare il gruppetto di riferimento. In ogni caso, infatti, si tratta di dati volatili e piuttosto grossolani ma cerco solo di dare una primissima idea della grandezza del valore dell’oggetto di cui sto parlando. L’Entreprise Value (“EV”) dell’aggregato delle tre società (capitalizzazione di borsa + posizione finanziaria netta) ammonta a circa €1.700 milioni, con un rapporto EV/Ricavi di poco superiore a 2. In una qualche misura, questo rapporto sembra coerente con le informazioni che si possono recuperare in giro sul business europeo del calcio.
Grosso modo, in Europa, esistono tre cluster di valore del parametro EV/Ricavi. In testa i Top Club, con un rapporto maggiore di quattro volte: Manchester United, Liverpool, Manchester City, Chelsea, Arsenal (Inghilterra); Real Madrid e Barcellona (Spagna); Bayern Monaco (Germania); Paris Saint Germain (Francia) e Aiax (Olanda). Poi alcuni club di prima fascia, con un rapporto tra tre e quattro volte: Juventus, Inter, Atalanta (Italia), Borussia Dortmund (Germania), Atletico Madrid (Spagna), Arsenal (Inghilterra) Infine alcuni club di seconda fascia, con un rapporto da due a tre volte: Milan, Napoli, Roma (Italia); West Ham, Everton, Leicester City (Inghilterra); Olympique Lyonnais (Francia).
Si tratta di ordini di grandezza instabili (possono cambiare anche molto rapidamente), spesso elaborati anche con metodologie un po’ differenti (vista la difficoltà di avere bilanci e principi contabili omogenei), qualche volta riferiti a date leggermente diverse (non tutti usano l’anno fiscale giugno – giugno, il più diffuso, per la verità, e non tutti rendono rapidamente pubblici i loro conti, anche in relazione alla loro differente natura giuridica e relativi obblighi di legge). A ogni modo, rapporti come quelli calcolati sopra, possono in qualche misura orientare la valutazione di un club che produce calcio, Con l’avvertenza che a questo business, disponendo di tutti i numeri necessari, andrebbe forse applicato un modello multivariato, che tenga conto dei ricavi e della loro natura, ma anche delle immobilizzazioni immateriali e, forse ancor di più, materiali (in particolare della proprietà o meno dello stadio, dell’uso che se ne fa, dell’indotto che produce, incluse eventuali attività immobiliari e commerciali satellitari).
Frequentemente, con la spesa dell’acquisto del capitale di una società Italiana di calcio, l’eventuale investitore non ha finito il suo compito e il suo esborso; a parte prendersi in carico dei loro debiti, tutte le società Italiane di calcio hanno bisogno di robuste ricapitalizzazione per ridurre una leva finanziaria rischiosa per il loro futuro, innalzare il loro rating finanziario, ridurre gli esborsi per interessi passivi, avviare un forse necessario ciclo di rafforzamento della rosa e quant’altro; senza dire, poi, dell’urgenza di ritrovare un miglior assetto economico, riducendo le pesanti perdite di questi ultimi esercizi e rigenerando un autofinanziamento di un qualche spessore.
I casi Bologna e Atalanta
In merito, esemplare è stato l’acquisto del Bologna: l’investimento iniziale è consistito in una prima ricapitalizzazione della società con un esborso di €11 milioni, quindi quasi gratis; sino a oggi, tuttavia si valuta che l’investitore abbia dovuto sborsare oltre €150 milioni di ripetute ricapitalizzazioni e/o prestiti, non avendo risolto il problema di riportare in utile la società e, soprattutto, quello di generare autofinanziamento sufficiente a sorreggere gli obiettivi sportivi del club, anche se il debito finanziario è quasi azzerato. Un esempio diverso è quello dell’Atalanta, dove il nuovo azionista ha sborsato €275 milioni per acquistare il 43% circa del club (attraverso la sua controllante).
La società fattura tre volte i ricavi del Bologna, da sei anni chiude il bilancio in utile, ha debiti finanziari netti per circa €150 milioni. Il Bologna è rimasto un club di fascia medio – bassa mentre l’Atalanta ha spiccato il volo, merito dei giocatori e dell’allenatore, ma, soprattutto, di una proprietà seria, di una buona gestione manageriale, di una visione strategica solida e di molti investimenti azzeccati. Negli ultimi anni, anche alla luce della recente invasione di campo dell’Arabia Saudita, lo scenario dell’industria del calcio è parecchio cambiato e oggi non sempre è attrattivo per un sano investitore La molla che spinge un investitore al calcio è quasi sempre di difficile individuazione, si tratta in un mix di sentimento, speculazione, protagonismo che altera qualche volta i parametri della razionalità di qualunque modello teorico di valutazione d’impresa.
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