Politically correct sarà lei: polizia (non pulizia) della lingua
di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
I romanzi di Roald Dahl vengono corretti allo scopo di eliminare parole o espressioni ritenute lesive della sensibilità linguistica attuale, il videogioco “Hogwarts Legacy”, basato sul mondo di Harry Potter, finisce nell’occhio del ciclone a causa delle posizioni ritenute “transfobiche” dell’autrice, J.K. Rowling, il bacio del Principe a Biancaneve si ritrova al centro di una polemica perché “non consensuale”. Queste manifestazioni del politicamente corretto, tra il ridicolo e il grottesco, hanno fatto giustamente scalpore quando i media ne hanno dato notizia. Si sbaglierebbe però a considerarle come l’espressione estrema e sopra le righe di un atteggiamento di per sé lodevole, e cioè quello di evitare parole e locuzioni che possano lasciar trasparire pregiudizi ingiuriosi od offensivi nei confronti di determinate categorie di persone. In realtà il linguaggio del politicamente corretto contiene una contraddizione. Il politicamente corretto è, di fatto, una forma aggressiva di rivendicazione di identità individuali o di gruppo, che possono essere, di volta in volta, etniche, sessuali o di genere, ciascuna delle quali si configura come l’espressione di un particolare innalzato a universale, che pretende di giudicare in nome di qualcosa che è proprio di questo stesso particolare.
Alla base c’è una forma di autoaffermazione identitaria, che rifiuta le definizioni tradizionali e si batte affinché il linguaggio pubblico adotti la definizione che meglio corrisponde alla percezione che ha di sé chiunque si considera vittima di uno stigma sociale. Non siamo lontani dall’ideologia del neoliberismo, dalla sua visione della società come una costellazione di attori individuali, ciascuno impegnato nella euforica affermazione di sé. E neppure da quella forma estrema di “relativismo culturale” che si esprime nelle “bolle” dei social network, dove l’esperienza individuale è l’elemento fondamentale nel consolidamento di “visioni del mondo” che non conoscono versioni dissonanti o semplicemente diverse. Ma è proprio per questo che la pulizia del linguaggio si trasforma in una polizia del linguaggio, pronta a colpire con unilaterale assertività i presunti nemici, poiché ignora che le individualità, così come i linguaggi, i simboli e le istituzioni sono il prodotto di una storia che è passata attraverso conflitti e contraddizioni, e che sottovalutarli significa condannarsi a vivere in eterno presente, senza passato e futuro. Non a caso negli Stati Uniti gli eredi dei colonizzatori anglosassoni hanno pensato di delegittimare il colonialismo europeo abbattendo alcune statue di Colombo, così come si è pensato di demolire quelle di Churchill perché razzista, immaginando così di lavarsi la coscienza.
Al politically correct interessa giudicare in nome di una morale apodittica e sottratta al tempo come allo spazio, poiché l’orizzonte etico-politico in cui si colloca è quello della vergogna e della colpa. Ora, non c’è dubbio che in molti casi la lotta per il politicamente corretto abbia contribuito alla emanazione di norme legislative capaci di tutelare istanze minoritarie meritevoli di protezione, ad ampliare la sfera dei diritti e a limitare le forme più macroscopiche di molestie sui luoghi di lavoro. In molti altri si è però tradotta in una sorta di quasi-ideologia, che ha contribuito a imporre una neolingua astratta e artificiale, burocraticamente asettica e spesso apertamente censoria e illiberale. In fondo, non è un caso se la crisi della sinistra inizia quando, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, questa cessa di concentrarsi sulla questione sociale, ovvero sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti popolari, e comincia a occuparsi sempre più di questioni, come l’uso appropriato del linguaggio, che forse infiammano le élite accademiche ma che poco interessano a chi vive sulla soglia dell’indigenza. Se è la perdita del contesto a rendere le richieste del politicamente corretto astratte e velleitarie, spetta al pensiero critico il compito di recuperare la consapevolezza del fatto che i soggetti, individuali e collettivi, non si affacciano sul presente fatti e finiti, ma sono il risultato di vicende storiche e contestuali che vanno lette e interpretate senza fermarsi all’uso delle parole.
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