Piracy Shield, l’affare s’ingrossa: esposto alla Corte dei Conti e piccoli provider senza tutela
Piracy Shield, l’affare s’ingrossa. Dopo l’esposto del Codacons che ne chiede il sequestro alla magistratura, è bufera piena per la piattaforma contro lo streaming illegale adottata dall’Agcom presieduta da Giacomo Lasorella, si muovono le associazioni dei provider. L’Assoprovider – 250 operatori, già da mesi in prima linea anche con ricorsi al Tar contro Piracy Shield – ha presentato un esposto alla Procura regionale della Corte dei Conti di Roma, chiedendo di accertare la sussistenza di un eventuale danno erariale e la congruità dell’azione dell’Agcom nella gestione delle risorse economiche relative alla piattaforma.
Il presidente di Assoprovider, Giovanbattista Frontera, afferma: “Chiediamo trasparenza e responsabilità nell’uso delle risorse pubbliche e nella gestione di un sistema che impatta significativamente sulla rete internet italiana”. E ribadisce che Assoprovider è stata l’unica a opporsi tempestivamente all’implementazione di Piracy Shield, nonostante le sue preoccupazioni siano rimaste inascoltate. I rischi anticipati ipotizzati si sono poi concretizzati con l’incidente del 19 ottobre 2024, quando il sistema ha erroneamente bloccato l’accesso a Google Drive.
Assoprovider rileva che solo ora la politica e gli stakeholder sembrano prestare attenzione alle criticità segnalate, chiede una revisione approfondita del sistema e maggiori garanzie per prevenire errori futuri.
Un’altra associazione, l’Aiip – 60 operatori tlc e internet, con un fatturato complessivo di circa 1 miliardo – cerca di far luce sul sistema dei blocchi cui Google sarebbe sfuggito dopo lo stop solo per il peso internazionale del colosso californiano. “Un blocco quando è stato attivato, dopo sostanzialmente 15-30 minuti (in cui l’operatore può intervenire in caso di errore materiale), non si dovrebbe toccare per almeno sei mesi”, spiega il presidente di Aiip, Giovanni Zorzoni.
“La normativa attuale – commenta -prevede che gli sblocchi possano avvenire solo dopo sei mesi, a meno che non si tratti di un errore riconosciuto quasi immediatamente. Ciò crea difficoltà per chiunque non risolva il problema nei primi minuti, allungando ulteriormente i tempi di risposta”. Ciò cui è sfuggito rapidamente Google. “Esiste la possibilità di fare ricorso – precisa -, ma è chiaro che in sole sei ore si è derogato per essere ben più tempestivi. Un conto è Google, che è un gigante del web e intrattiene interlocuzioni con l’autorità”, altro il piccolo provider: “Gli operatori, vincolati dalla segretezza, non possono divulgare il contenuto degli oscuramenti. Questo obbligo, nato per evitare che i pirati aggirino i filtri, ostacola ulteriormente la trasparenza – denuncia- , lasciando i piccoli provider privi di strumenti per sapere quali risorse siano bloccate e per quale motivo. Di conseguenza, questi possono potenzialmente restare all’oscuro del problema per settimane, con gravi danni economici e operativi”.
Un problema rilevante, aggiunge ancora, è la mancanza di strumenti di trasparenza per gli operatori che spesso non sanno di essere stati bloccati e non possono verificare lo stato dei loro servizi tramite il sito dell’Agcom perché questo strumento, previsto dal regolamento, non è stato a tutt’oggi realizzato. “Google – sottolinea – pare abbia saputo di un blocco tramite messaggi su WhatsApp. Questo scenario è preoccupante soprattutto per i piccoli operatori che non hanno rapporti diretti con l’autorità, esponendoli a danni anche per lunghi periodi senza una chiara soluzione”.
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