Politica

Perché sbaglia chi propone di chiudere il vecchio Pd

di Redazione -


di Edoardo Greblo & Luca Taddio

Sta facendo molto discutere l’ipotesi di chi propone lo “scioglimento” del Partito Democratico quale via di uscita dal momento difficile che sta attraversando. L’idea di dare “degna sepoltura” a un partito nato nel 2007, e che da allora è quasi sempre stato al governo pur non avendo mai vinto un’elezione, sembra nascere dall’esigenza di ricostruire il centrosinistra su basi nuove e più adeguate al contesto politico che si va profilando. Il minimo che si possa dire è che si tratta di un’ipotesi ingenerosa, perché non tiene in dovuta considerazione la storia, le radici e le tradizioni di un partito che non viene dal nulla, che non è un partito personale e non è stato creato a colpi di click. Ma anche poco realistica, poiché il vuoto che si aprirebbe nell’universo politico uscito sconfitto dalle elezioni verrebbe occupato a sinistra dal Movimento 5 Stelle e al centro dal terzo polo di Calenda e Renzi.

Ora, le ragioni della crisi del PD sono numerose, ma ce n’è una che emerge con sempre maggiore evidenza e che sembra preminente: la definizione a dir poco incerta della sua identità politica. Ciò che manca al PD è una chiara identità riformista capace di mettere al centro della sua proposta politica il lavoro in modo nuovo e moderno, ripristinando i legami ideali e organizzativi con il grande filone del socialismo europeo, che basa le sue istanze riformatrici sull’idea che sia il lavoro, e il suo soggetto, la persona, il luogo del bisogno e dell’emancipazione, che si tratti di difendere i diritti dei lavoratori, di eliminare le disuguaglianze, di orientare il mercato verso un percorso ecologicamente sostenibile. In fondo, non si tratterebbe che di riprendere l’ispirazione ideale della nostra Costituzione – da attuare, tra l’altro, piuttosto che da rivedere – che, all’articolo 1, pone il lavoro a fondamento della Repubblica.

Cosa vuol dire che la Repubblica è “fondata sul lavoro”? Vuol dire che il lavoro non può essere rubricato a un fatto privato per varie ragioni: perché è la fonte della sussistenza materiale per chi deve affidarsi alla cieca casualità della nascita, del censo, del genere o della ricchezza, perché è il criterio su cui ci si basa per godere di status e stima sociali, ma, e soprattutto, perché è il luogo in cui si concentra il potere economico. Non può essere considerato soltanto come un’attività che va retribuita in modo più o meno equo perché assolve a una fondamentale funzione sociale, nel senso che è nel lavoro che si esprimono con disarmante evidenza le relazioni e le diseguaglianze di potere. Oggi troviamo una radicale divergenza tra gli interessi del mondo finanziario e quelli del lavoro.

Un partito è uno strumento, un mezzo per portare avanti degli interessi sociali il più possibile chiari: non è il fine. Il problema della “forma partito” dev’essere funzionale al programma di riforma che intende promuovere: qual è la parte della società che si intende rappresentare? Quali sono gli interessi della maggioranza della popolazione e dei lavoratori che si intendono rappresentare? Quali valori li accomunano e quali sono gli strumenti che si possono attuare e attivare per dare corpo e forma rivendicativa a questi interessi? Si intende rivendicare una cultura federalista e quindi federare il partito in funzione di una chiara visione autonomista o si ritiene che l’assetto debba essere e restare incentrato su Roma? È a partire da queste scelte che deve derivare la forma partito; diversamente, i termini del problema rimangono lontani dagli interessi delle persone.

La via aperta dal socialismo europeo ha storicamente cercato di intercettare ed esprimerne le dinamiche emancipative in funzione di una trasformazione sociale che intendeva restituire dignità e diritti ai lavoratori ripoliticizzando le relazioni economiche. Dal momento che è nel lavoro che si presentano, in statu nascendi per così dire, i dislivelli di potere che è possibile ritrovare, su altra scala, a livello sociale, i diritti individuali e collettivi – conquistati nei luoghi della produzione grazie al “compromesso socialdemocratico” tra le ragioni del capitale che dà lavoro e le ragioni dei lavoratori salariati – sono (o sono stati) uno straordinario vettore di emancipazione per tutti i cittadini. Ora che il paradigma socio-economico “neoliberale” – sul quale il PD aveva inizialmente scommesso – ha mostrato tutti i suoi limiti, il partito dovrebbe finalmente ritornare a battersi per favorire cambiamenti sostanziali e duraturi nelle condizioni occupazionali, così da riflettere il valore e la dignità del lavoro. Il declassamento economico e culturale che i lavoratori hanno subito negli ultimi decenni non è il risultato di un destino inevitabile, ma del fatto che si è ritenuto che non vi fossero alternative. Anche il Partito Democratico si è cullato nell’illusione che la politica dovesse limitarsi ad assecondare un modello di sviluppo economico ritenuto vantaggioso per tutti. Come invece si è visto, non è vero che “la marea alza tutte le barche”, e questo modello sta avvantaggiando straordinariamente pochi rispetto alla stragrande maggioranza dei cittadini. Con urgenza le spinte verso la globalizzazione devono trovare il giusto contrappeso attraverso il rafforzamento dei territori sul piano tecnologico ed energetico.

L’unica via d’uscita da questo cul de sac in cui il PD si è infilato può essere perciò individuata nella definizione di un programma che riprenda la questione del lavoro e delle sue contraddizioni per farne il perno di una costituzionalizzazione della società e per restituire ai cittadini la libertà dalle nuove disuguaglianze create dalla gig economy. Persa la sua vocazione maggioritaria, il PD non può che ritrovare nuova linfa all’interno della famiglia a cui appartiene, ovvero il socialismo europeo. Forse non sarà la sua storia, ma potrebbe essere il suo futuro.


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