Niente patto Ai. Tanto rumore per poco più di niente: gli Usa, spalleggiati da Londra, e l’Ue, che si schierano con India e Cina, rompono pure sull’intelligenza artificiale. E lo fanno all’indomani della proposta indecente che Elon Musk ha fatto a Sam Altman per OpenAi. Quando l’Ue ha lanciato, tardi ma lo ha fatto, il suo (piccolo) StarGate. Sul piatto, per l’intelligenza artificiale, ci sono fondi fino a duecento miliardi. Almeno in teoria. Da Parigi, dove si è tenuto il summit sull’Ai, Ursula von der Leyen ha dato i numeri presentando l’iniziativa InvestAi: “Che possiamo integrare con 50 miliardi”, soldi che andrebbero a sommarsi a quelli già previsti per l’Ai Champions Initiative, da 150 miliardi. “Puntiamo a mobilitare un totale di 200 miliardi di investimenti per l’Ai in Europa”, a cui accostare un fondo da 20 miliardi per finanziare le gigafactory dell’Ai. Non si tratta solo di fondi pubblici ma di una joint-venture pubblico-privata a cui prenderanno parte, sotto l’ombrello di General Catalyst, aziende come Dassault Systèmes, Deutsche Bank, Orange Group, Axa, Lufthansa, Mercedes-Benz, Spotify, Siemens. Molte delle quali, in una lettera pubblica resa nota nei mesi scorsi all’indomani dell’approvazione dall’Ai Act, avevano già fatto notare a Ursula e alla Commissione Ue che, al di là di fondi e buoni propositi, il grande rischio (e limite) per l’Ue in fatto di Ai è la selva oscura di burocrazie e regolamenti. Cosa che, chiaramente, non ha mancato di far notare Jd Vance, vicepresidente Usa volato a Parigi per assistere ai lavori del Summit. “Un’eccessiva regolamentazione potrebbe uccidere un’industria in forte espansione”. Parole che si sono tradotte in fatti. Anzi, in un clamoroso nulla di fatto. Né Washington né Londra hanno firmato il patto per l’Ai aperta, inclusiva ed etica proposto da Francia (che da parte sua ha annunciato investimenti da 109 miliardi), Cina e India. Che, da parte loro, chiedevano di “evitare la concentrazione del mercato” per rendere più accessibile la tecnologia. “Faremo ogni sforzo –aveva dichiarato Vance nel suo intervento – per incoraggiare politiche Ai a favore della crescita: gli Usa sono leader nel campo e questa amministrazione vuole che tali restino”. Detto, fatto. L’America non cederà un’oncia del suo primato digitale né lo farà mai. Meglio concentrarsi sulla vicenda OpenAi, con l’offerta di Elon sdegnosamente rifiutata da Altman che teme un brusco stop giudiziario alla trasformazione dell’attuale fondazione in società commerciale. Proprio l’ex enfant prodige di Chicago, a Parigi, ha affermato che l’operazione di Musk altro non sarebbe che il tentativo di rallentare il processo. E lo ha detto tanto a Bloomberg quanto alla Cnbc. Nel frattempo, lo stesso Elon Musk, unico assente in Francia tra tante teste coronate del mondo digitale perché “troppo impegnato”, ha trovato il tempo di dare del “pappone” a Xavier Niel, magnate francese della tecnologia e delle comunicazioni, coinvolto da Macron nel summit parigino, colpevole a sua volta di avergli dato dell’idiota (“connard”) in un video. La posizione del capo di X è cristallina, coerente con quella della Casa Bianca. L’intelligenza artificiale “condivisa” non s’ha da fare. Né ora né mai. L’Europa, che è già in ritardo, inizi pure a correre. Con la consapevolezza di ritrovarsi col fiato corto, in salita, su una pista irta di pericoli, ostacoli e ostruzionismi: il patto sull’Ai non c’è. Né, ragionevolmente, si sarebbe potuto sperare di averlo.