Esteri

Parigi, ansia e cantieri tra decadenza e paura

di Giovanni Vasso -


Parigi è un cantiere d’ansia. Tutto chiuso. Pure la Senna. Debbono bonificarla, perché incombono i Giochi Olimpici. Quelli che, nemmeno sono iniziati, e già fanno piovere polemiche (da mesi) sulla testa di Emmanuel Macron. Dallo scandalo del furto dei piani di sicurezza fino ai costosi peluche di Jo, la mascotte dei Giochi: un berretto frigio che più francese non si può, a parte il fatto di essere stato prodotto in Cina. Politica ovunque.

Cantieri su cantieri. A Notre Dame ci sono torme di pellegrini dal Sud America, gli stessi che incroceresti a Praga sul sagrato della chiesa dedicata alla Vergine Vittoriosa in cui si custodisce il Bambino Gesù, che s’accontentano di fotografarsi coi pannelli che illustrano il progetto dei lavori di ricostruzione dopo la tragedia culturale dell’incendio di cinque anni fa. Cercavano il sacro, hanno trovano la visita virtuale con gli occhialoni digitali. Ovunque un trionfo di impalcature e recinzioni. Persino al Moulin Rouge, dove è caduta una pala, c’è lavorio e fermento: qua la fine dei lavori è stata recente. Altrove non se ne vede la via. Chiuso il mitico stadio Roland Garros, chiuso pure il suo museo che qualche genio ha bandito ai turisti. Chiuso il Parco dei Principi, almeno è aperto lo store del Psg. I negozi, quelli sì, sono aperti. Lavorano e fatturano. C’è l’ansia di non farcela. Ansia, ovunque. Quella è altrettanto palpabile sugli Champs Èlysées. Dove una volta si alzavano in volo gli aerostati anarchici che sfidavano le leggi della fisica fino a quel momento conosciute, tra famigliole di turisti, sugar daddies e ragazze in burqa sfilano militari armati di tutto punto. Come se vedere soldati in strada desse sicurezza piuttosto che infondere la sensazione che ci sia qualcosa che non va mentre persino nei supermercati ti avvisano che, senza ulteriore avviso, ti possono aprire la borsa per ispezionarla in nome delle leggi anti-terrorismo e sfilano sirene e brillano lampeggianti. A tutta velocità. Sarà qualche dignitario di Stato, qualche funzionario. Come da noi. In fondo non è mica un mistero che l’Italia, quando decise di farsi Stato, copiò pedissequamente il modello francese. Ma questa, così come le lamentazioni sul perché noi non possiamo essere come gli anglosassoni o i tedeschi, è un’altra storia.

Resiste soltanto Disneyland ma quella è un’enclave del divertimento, uno Stato a parte dove vigono le leggi di Topolino che, come si sa, è l’autocrate indiscusso e indiscutibile dell’entertainment. Sembrava che a Parigi ci fossero gli unni alle porte. Le edicole tutte un fiorire di ritratti, allarmi, manifesti, facce su facce, persino profili psicanalitici. Le scritte impazzite impazzavano sui muri e addobbano serrande chiuse. Cervellotiche, a tutta prima. Mélénchon “collabò” di Macron che a sua volta è bollato come “pre-facho” per aver indetto le elezioni che porterebbero la Francia a un governo manco quello di Vichy. Le parole d’ordine degli idealisti scalzano le ragioni dei realisti. Di fronte alla tenuta democratica del Paese che si picca, in tanta decadenza, d’aver donato al mondo liberté-egalité-fraternité s’eclissano le parole d’ordine del primo turno elettorale: sicurezza e potere d’acquisto. Macron agita gli opposti estremismi facendoli entrambi lavorare per lui. Il Rn è lo spauracchio, il Nfp il corpaccione che gli si opporrà. Al governo, però, ci resterà lui. Tutto è perdonato: la riforma delle pensioni, la ferita della procedura Ue per deficit, la fine della Françafrique, i rumori dei dipartimenti d’Oltremare. Macron guadagna qualche altro mese, la democrazia è salva. Parigi è in festa.

Oppure no. L’ansia, quella di non farcela, resta. All’entrata del Cimitero di Montparnasse, le Grand Cimitière, dove riposano i grandi della letteratura francese e non, da Maupassant a Baudelaire, da Ionescu a Simone de Beauvoir, c’è un accampamento di tende che manco ai tempi di Occupy Wall Street. Ognuna col nome dei suoi inquilini. I vivi, che vanno a ubriacarsi un po’ più in là dopo aver passato una giornata a elemosinare davanti ai supermarché imprecando contro gli avventori, bambini compresi, e i morti che non si muovono dai loro loculi, coi loro nomi impressi sopra. Un romanzo verista che si estende a ogni Lungosenna. Almeno a quelli ancora aperti al pubblico. Di qui runners e ragazze in bicicletta, di là alcolizzati sotto il sole che, a Parigi, tramonta tardi sui battaglioni di ragazzi ben vestiti che sbocconcellano, qua e là, cibo etnico a basso prezzo consumando una pausa pranzo più precaria di un futuro oscuro e nebuloso. Messe da parte le mele (costano troppo!), ci sono alcune Vic in tailleur e risvoltini che festeggiano la vittoria dell’arco costituzionale intingendo preoccupazioni nell’entusiasmo alla salsa di soia. Il Tempo degli Onigiri.

Fortuna che questa città abbia ancora qualche vizioso difetto. Le schiere di bouquinistes sotto il sole cocente. Oltre a decine di stampe, la possibilità di acquistare a quattro soldi una prima edizione di Céline. È dal ‘500 che sono lì. Da prima che la Rivoluzione facesse rotolare teste e adesso che la Francia guarda in faccia, una volta ancora, il suo innegabile declino. Ci sono le Olimpiadi, a Parigi. C’è la Senna da bonificare. Incombono i giochi. Per distrarsi un po’.


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