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Otto marzo: il diritto delle donne di misurarsi con gli uomini “ad armi pari”

di Laura Tecce -


Otto marzo, Giornata internazionale dei diritti della donna. E diritto primario è quello di misurarsi con gli uomini “ad armi pari”, sia che si parli di opportunità lavorative, di gender gap retributivo o di competizioni sportive. Specialmente in quei casi, come negli sport da combattimento, dove la forza, la massa muscolare e la conseguente prestazione atletica fra un uomo e una donna sono evidentemente non comparabili: la boxe femminile, ad esempio, ha paradigmi diversi e poco conciliabili con la stessa pratica nella sua versione maschile. O transgender. Già nel luglio 2024, durante le Olimpiadi di Parigi, il ministro per lo Sport e i giovani Andrea Abodi criticò apertamente l’ammissione di pugili geneticamente maschi al torneo olimpico femminile, mettendo in dubbio l’equità della competizione e la sicurezza delle atlete. Considerazioni condivise anche dalla ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella che nell’ottobre 2024 durante la riunione ministeriale del G7 sulla parità di genere e l’empowerment femminile ha ribadito l’urgenza di stabilire criteri standard e scientificamente fondati per la partecipazione di persone transgender e intersex nelle competizioni sportive femminili. Tema tornato di attualità in queste settimane, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che vieta alle atlete transgender di competere in squadre sportive femminili. Durante l’annuncio, Trump ha peraltro citato il caso della pugile algerina Imane Khelif, vincitrice della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi, definendola “un’atleta transgender”, seguito da Elon Musk che con un post su X ne ha a sua volta messo in dubbio il genere. In risposta Khelif ha intrapreso azioni legali per diffamazione e cyberbullismo contro Musk e altri individui coinvolti. Ma la questione va ben oltre i presunti commenti diffamatori: la pugile algerina è stata infatti esclusa dai campionati mondiali di boxe femminili attualmente in corso a Niš, in Serbia: la decisione è stata presa dall’International Boxing Association (IBA), che ha dichiarato che la pugile “non soddisfa i criteri di idoneità, in particolare a causa di livelli di testosterone considerati troppo elevati”, così come nel 2023 le venne impedito di partecipare ai mondiali di New Dehli per motivi analoghi. Posizione opposta a quella del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, che ha respinto i test di idoneità di genere dell’IBA, ritenendoli non validi e permettendo all’algerina di partecipare ai Giochi Olimpici e scatenando una marea di polemiche soprattutto dopo la conquista dell’oro nel match con l’italiana Angela Carini, che ha abbandonato il ring dopo appena 40 secondi. Ma torniamo a Khelif: malgrado da oltre un anno sia di dominio pubblico, ancorché non ufficiale, che l’IBA sostenga il fatto che sia geneticamente un maschio, l’atleta non ha ritenuto di dover presentare un’analisi cromosomica che lo smentisca. Per quanto ne sappiamo, Imane è stata riconosciuta come femmina alla nascita e ha ricevuto documenti come individuo di sesso femminile, e questo in uno Stato come l’ Algeria che certo non può essere annoverato come all’avanguardia nel riconoscimento (e nell’accettazione) della cosiddetta teoria gender. Ma il punto non è che Khelif sia donna o che si percepisca come tale o che nel corso della sua carriera agonistica sia anche stata sconfitta da altre donne, ma il fatto che abbia – e su questo non sembrano esserci molto dubbi – la forza e la struttura di un uomo. Con buona pace del Cio.


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