Nordio, la riforma e quell’abuso d’ufficio che paralizza la pubblica amministrazione
di FRANCESCO DA RIVA GRECHI
Lo scarno testo del Disegno Di Legge (Ddl) Nordio-Crosetto è arrivato dunque, fin dalla simbolica data del 19 luglio, anniversario della strage di via d’Amelio, al Parlamento, per iniziare il suo iter verso l’approvazione. Si può presupporre un generico visto di legittimità da parte del Quirinale, in cambio dell’abbandono della volontà di riformare il delicatissimo e controverso concorso esterno nel 416-bis c.p., ceduto dalla premier Giorgia Meloni, con la motivazione indiscutibile dell’assenza dal programma di governo.
L’abrogazione dell’abuso d’ufficio può vantare ben altro consenso. Anzitutto è il reato con uno dei minori indici di condanna rispetto all’avvio del procedimento con un avviso di garanzia. A fronte di 4.745 iscrizioni nel registro degli indagati nel 2021 e 3.938 nel 2022, le archiviazioni sono state ben 4.121 nel 2021 e 3.356 nel 2022, secondo la stessa relazione al Ddl. In secondo luogo, ha un impatto devastante sulla c.d. amministrazione “difensiva” e dunque, mediatamente, sul bene giuridico tutelato, consistente nel buon andamento e nell’imparzialità della pubblica amministrazione, come dispone l’art. 97 della nostra Costituzione Repubblicana. Nelle amministrazioni locali sono incalcolabili i provvedimenti che non vengono firmati da Sindaci e dirigenti per paura di incorrere in un avviso di garanzia e vedersi stroncare la carriera amministrativa o politica per una mera ipotesi che non viene quasi mai suffragata dalla realtà dell’accertamento dei fatti. Diventa così molto più consigliabile e prudente, da parte degli amministratori, astenersi dalle assunzioni di responsabilità consistenti nelle indispensabili firme previste dagli iter organizzativi degli stessi enti, piuttosto che rischiare un processo penale.
Infine, e si tratta di un problema che travalica gli aspetti tecnici, l’impatto mediatico della pubblicazione delle suddette mere ipotesi è tale, e con tale odiosa strumentalità, sia da parte politica, sia da parte dei magistrati che forniscono le notizie alla stampa, da rendere inaccettabile la convivenza con un sistema in cui la condanna viene decisa sui mass media, al momento della pubblicazione della notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati e arriva all’interessato a volte addirittura prima della notifica dell’avviso di garanzia e quindi della possibilità di sapere dell’esistenza delle indagini a suo carico.
In sostanza, e qui risiede il vizio di questa seconda repubblica, le vicende giudiziarie prevalgono su quelle politiche e la discussione di esse sui giornali e nelle televisioni prevalgono sulle discussioni nelle aule giudiziarie dove, come sempre, o quasi, nei casi di abuso di ufficio, non si arriva nemmeno, quando è la stessa Procura della Repubblica che ha assunto l’iniziativa (obbligatoriamente) dell’indagine, a chiedere l’archiviazione durante le indagini preliminari. La conclusione è nel senso che la vicenda di un reato come l’abuso d’ufficio, del quale correttamente il governo vuole l’abrogazione, impone di riflettere sul “dogma costituzionale” dell’obbligatorietà dell’azione penale e dunque sul rapporto delle iniziative del governo e del Parlamento con il testo costituzionale e con la legittimità degli interventi politici sul sistema giudiziario.
In questo senso, il richiamo della funzione di garanzia suprema del Capo dello Stato, per così dire “garantista”, fuori da ogni confronto e polemica politica, per vocazione, nonché per alto ruolo istituzionale, deve precedere ogni presentazione di progetto di modifica della Costituzione, come quello sull’obbligatorietà dell’azione penale. Diversamente, invece, con questo Ddl di abrogazione della fattispecie penale del reato di abuso d’ufficio che, intervenendo sul Codice penale, richiede una semplice legge ordinaria.
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