PRIMA PAGINA – Non solo Ilaria Salis, gli italiani dimenticati nelle carceri
Le catene di Ilaria Salis in tv e quei ceppi invisibili che stringono nella morsa almeno 2.058 italiani detenuti nelle carceri di tutto il mondo. Nel silenzio, nell’abbandono, con gli stessi topi che fanno compagnia all’antifascista reclusa da undici mesi nel carcere di Budapest, per la quale la sinistra chiede la liberazione per la violazione dei diritti umani. Eppure le stesse battaglie per la dignità non hanno la medesima eco se il prigioniero si chiama Filippo, Chico o Carmine. Nomi che non avrebbero un volto, se sulle loro storie non si fossero accesi i riflettori a seguito delle battaglie di famiglie disperate, che non si arrendono alle condizioni carcerarie dei propri cari e all’oblio.
Secondo i dati dell’ultimo Annuale statistico della Farnesina, che comprendono sia chi è già stato condannato in via definitiva che chi è in attesa di giudizio, insieme a Ilaria, nella prigione ungherese, sono reclusi altri cinque nostri connazionali di cui non si conosce neppure il nome. Le carceri tedesche ne ospitano 713, altri 239 sono prigionieri in Francia e 229 in Spagna. In totale, nei penitenziari europei, risultano reclusi in condizioni più o meno simili 1.500 italiani, mentre gli altri 558 abitano le case circondariali dei Paesi extra Ue.
Tra questi gli Stati Uniti, con i quali l’Italia, ormai da anni, porta avanti un’operazione diplomatica senza esito per l’estradizione di Chico Forti, il produttore tv condannato all’ergastolo senza condizionale per omicidio. La sua storia è tristemente nota perché Chico, da 23 anni in un penitenziario di Miami, proclama la sua innocenza e sostiene di essere stato incastrato per il delitto di Dale Pike, il figlio di un imprenditore di Ibiza al quale, secondo l’accusa, Chico voleva sottrarre un hotel mediante un’articolata truffa.
Dale, intuite le intenzioni di Forti, si sarebbe messo di traverso. Era in procinto di denunciare l’italiano che, a quel punto, avrebbe ordito l’omicidio, eseguito il 15 febbraio 1998. Una tesi sposata dai dodici giurati che, nel 2000, pronunciarono il verdetto di colpevolezza per Chico, il quale, esauriti tutti gli appelli, ha chiesto l’estradizione in Italia sulla base della Convenzione di Strasburgo, che permette a un condannato di scontare la pena nelle patrie galere. L’istanza di Forti, però, è bloccata dalla burocrazia, nonostante il suo rientro in Italia fosse stato annunciato come una vittoria nel dicembre del 2020 dall’allora ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il quale aveva fatto sapere che il governatore Ron DeSantis aveva firmato per l’estradizione.
Eppure quell’aereo con Chico Forti a bordo non è mai arrivato. Anzi non sta nemmeno sulla pista di decollo, perché la questione è troppo spinosa per gli Usa. La giustizia americana, infatti, non ha mai concesso la Convenzione di Strasburgo a detenuti con la pena all’ergastolo senza condizionale e il destino di Chico rappresenterebbe un precedente, aprendo la strada a una marea di domande di altri prigionieri destinati a morire in carcere. Inoltre la mancanza di una pena equivalente nel nostro ordinamento non tranquillizza gli Usa, in particolare modo dopo la gestione del caso di Silvia Baraldini, l’icona di quella sinistra da salotto acclamata perfino in una canzone di Francesco Guccini.
Dopo 16 anni in un carcere statunitense per associazione sovversiva, la terrorista rossa ottenne di scontare il resto della pena nelle patrie galere e rientrò con un volo di Stato a Ciampino il 24 agosto 1999, dove venne accolta con un cerimoniale per acclamazione. E dopo due anni, in barba alle rassicurazioni fornite agli Usa, il nostro Paese non mantenne la parola, autorizzando la scarcerazione anticipata della compagna. Dunque gli americani ora si guardano bene dal concedere il bis con Chico Forti.
E se su Chico l’onda innocentista continua a fare rumore, c’è l’assoluto silenzio su un altro italiano detenuto in Florida da ormai trent’anni.
La storia di Romano la racconta Katia Annedda, fondatrice della onlus “Prigionieri del silenzio”, che si occupa dei diritti dei nostri connazionali detenuti all’estero. Romano sta scontando trent’anni di galera per stupro, nonostante la prova negativa del dna. Per lui non ci sono battaglie. Così com’è passato sotto traccia l’indegno trattamento riservato a Carmine Sciaudone, rimasto per un anno e mezzo, in attesa di processo, in una lurida prigione di Bali, nel più completo silenzio del governo di quella stessa sinistra che oggi lotta con Ilaria Salis. Le accuse per Carmine, però, non erano funzionali alla strumentalizzazione ideologica, perché l’imprenditore di Latina, poi assolto, non era sotto processo per aver partecipato a un pestaggio contro neonazisti, ma soltanto per aver lavorato con un visto turistico.
La battaglia per i diritti di Ilaria, se non altro, ha portato alla luce anche le terribili condizioni in cui sta vivendo, nel carcere-lager di Porta Alba a Costanza, in Romania, Filippo Mosca, un 29enne di Caltanissetta arrestato con alcuni amici il 3 maggio scorso e condannato a 8 anni e 3 mesi di reclusione per traffico internazionale di droga. Sua madre Ornella Matraxia ha denunciato le condizioni disumane in cui sta vivendo il figlio, che si proclama innocente: tra topi e scarafaggi, in una cella di 23 metri quadrati dove dormono 24 persone, con una sola latrina per tutti, in mezzo ad escrementi e sporcizia. Perché il mancato rispetto della dignità umana non si riduce soltanto all’esibizione delle catene in tribunale.
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