In Italia la mancanza di competenze può far saltare la transizione digitale. O, almeno, può seriamente complicare il cammino delle aziende verso le nuove tecnologie necessarie per restare competitive sul mercato. La denuncia, l’ennesima, è arrivata stavolta da Confartigianato. Che sciorina numeri imbarazzanti per il mercato del lavoro italiano: il mismatch, ossia lo iato – sempre più incolmabile – tra la domanda e l’offerta di impiego ha raggiunto livelli imbarazzati. Al punto che, a fronte di poco meno di 700mila posti disponibili messi a disposizione dalle aziende, queste riescono a trovare figure adatte ai compiti richiesti soltanto nel 51,8% dei casi. In pratica le chance di trovare un lavoratore esperto in tecnologie digitali è pari a una su due. Per le micro e piccole imprese, se possibile, va anche peggio dal momento che la loro ricerca, finora, è stata a dir poco infruttuosa lasciando liberi addirittura il 54,9% dei posti. Il rapporto, quindi, si ribalta. Trovare un tecnico, un operatore capace di comprendere le tecnologie nuove e utilizzarle per fare impresa, per le aziende, è diventato come centrare una sorta di terno al lotto.
Le figure maggiormente richieste, per completare o quantomeno avviare la transizione digitale delle imprese, riguardano l’intelligenza artificiale, poi il cloud computing, quindi l’internet delle cose (Iot), gli analisti di dati e, soprattutto, di big data. Finita qui? Manco per sogno. C’è spazio, tantissimo, anche per esperti in realtà virtuale, aumentata e per operatori e conoscitori della block-chain. Cose complesse, competenze importanti che si acquisiscono con l’impegno che deve iniziare già dai banchi scolastici. Per tentare di avvicinare (e per chi ce li ha di tenerseli) i dipendenti capaci di lavorare con l’hi tech, le imprese hanno messo in campo alcune strategie. Che, in fondo, non appaiono nemmeno troppo originali. Un imprenditore su quattro (per la precisione il 24.9%) ha ripreso a dialogare con le scuole, tecniche e professionali. Una buona strada, senza dubbio dal momento che il 72% delle figure richieste è “certificata” da un diploma di formazione tanto superiore quanto universitaria. Un’azienda su tre, invece, punta sul classico aumento di salario. Sempre che le buste paga offerte siano ritenute all’altezza dai potenziali dipendenti. Infine il 28,9% ha deciso di concedere maggiore flessibilità e orari più comodi agli operatori, rispondendo alla sempre più pressante richiesta che arriva, specialmente dalle fasce più giovani di lavoratori, non più disposte a sacrificare più tempo del dovuto al lavoro. Inoltre c’è da fare i conti con la great resignation, il fatto che i lavoratori – in particolar modo quelli maggiormente formati e dotati di maggiori competenze – non si facciano più scrupoli a interrogare, anche loro, il mercato alla ricerca di migliori occasioni e di impieghi maggiormente remunerativi lasciando, senza troppi problemi, il posto che già hanno. Resta, però, il tema di fondo. Che sta diventando un mantra dei nostri tempi. La mancanza di competenze, o meglio il fatto che ci siano pochi – rispetto alla richiesta – profili abbastanza qualificati, unito alla rinnovata consapevolezza di essere “appetiti” dal mercato del lavoro e perciò poco inclini ad accettare ogni tipo di compromesso, può far saltare sul serio la transizione digitale in un Paese, come l’Italia, che è ancorato a una dimensione micro, se non addirittura familiare, dell’impresa?
Intanto, però, Confartigianato fornisce i dati del lack di competenze in giro per l’Italia. E, a sorpresa, la Regione in cui è più difficile trovare dipendenti è il Trentino-Alto Adige, dove il 65,8% dei posti di lavoro con e-skills offerti dalle imprese (pari a 12.070) rimane vacante. Al secondo posto un’altra insospettabile Regione del laborioso Nord-Est: il Friuli-Venezia Giulia (dove sono 7.350 le figure professionali introvabili, pari al 62,6% del totale richiesto dalle imprese della regione). Seguono l’Umbria (3.750, pari al 60,3%), le Marche (9.030, pari al 57,1%), e quindi arriva il Veneto (31.720, pari al 56,3%). Subito dopo c’è l’Emilia-Romagna (29.760, pari al 55,8%). Proprio dove l’economia gira di più e la produzione non manca.