Nitsch e Morra: 50 anni d’amicizia che raccontano l’avvenire
Entrare nell’antro di Hermann Nitsch, è pura metafora, in quanto tutto è reale fino in fondo, come in un teatro in cui si recita a ridosso della realtà, in un endemico sacrificio, in cui solo la partecipazione dei trafitti, dei crocifissi, dei morti umani, è simulazione spinta al limite, nella sopportazione di interiora e carni macellate, che ne seppelliscono ritualmente le forme, come a dire che questo sta per quello, nel riversarsi del sangue e dei liquidi seminali, di cui si sente l’odore e si percepisce il sapore, sia nell’imminenza calda dell’evento, che nella freddezza terrificante del rigor mortis. Che tutto questo, avvenga nel cuore di Napoli, per l’intenso attivismo d’avanguardia di Peppe Morra, è una ulteriore complicazione, perché sembra che voglia entrare nella circolazione arteriosa della città, per verificarne lo stato di salute dell’aria, dell’acqua, della terra e coglierne gli auspici, come avveniva “nel tempo degli dei falsi e bugiardi”, quando si volevano conoscere le condizioni ottimali del luogo scelto per fondare una città. In effetti, la costruzione di questa casa per Hermann Nitsch, ha risanato un pezzo della Salita Pontecorvo e portato vita, là dove c’era degrado e abbandono, là dove dava invereconda mostra di sé una ex centrale elettrica, che ora scopre il percorso di una seduzione, nata nel 1974, tra Morra e Nitsch e giunta al tempo presente, in questa sorta di labirinto rinnovato, in cui il museo dell’orrore mostra tutta la sua valenza umanistica o quanto meno illuministica, agendo come energia catartica, che attraendo nell’officina dell’apocalisse, ti sputa fuori ex vortice, dalla porta irreversibile della morte simulata, alla luce di una nuova vita. Con tutto quello che ciò significa in termini di catarsi, purificazione, liberazione, individuale e collettiva, che nella società dello spettacolo, lo stare davanti al video, nega sempre, nega per sempre e qui viene recuperato in una specularità, in cui tutti gli eventi, sono presenti in museo fotografico, nelle sindoni, nelle ampolle, nei secchi, nei tavoli, a volte sconfinante con un laboratorio alchemico, che coniuga il mescolamento di tutto nel tutto, fondendo saldamente la poetica e la ragione, in una rivolta ad ogni dialettica del bello e del brutto, per la tangente dell’ebbrezza, dell’ubriachezza erotica e dionisiaca, che provoca la nudità, l’orgiastico, messe nel calderone del contesto ambientale, che qui viene ricomposto con una doppia valenza teatrale e pedagogica, su cui passano cinquant’anni di mutazioni, di linguaggi e di costumi, ma con una resistenza antropologica sempre uguale a se stessa, che è veramente impressionante. Grandi tele, appese alle pareti, sono i reperti materici di iconografia del sangue, che da rosso caldo si trasforma in un cupo colore di ossidazione, mentre il reperto fotografico o l’ossessiva ripetizione televisiva, documenta l’eterno presente di una attualità, che diventa paura, tremore, morte, trasformate in corazze, per gli attori di una messa in scena che somiglia ad un medioevo prossimo venturo. C’è un manifesto, di cui non importa dare né l’anno né il contesto, in cui si risponde a chi vede male dappertutto e ha visto in questo potente compositore di eventi, un esaltatore della violenza, un disumano, mentre io non vedo scorrere altro che uno spirito che fluisce da Eschilo, Sofocle, Euripide, emergente dal carsico sistema comunicativo che potrebbe risvegliare il solforico, Raimondo di Sangro, nella mistica del suo velario invisibile.
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