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Napolitano teste al processo Stato – Mafia

di Redazione -


Una data storica, il 28 ottobre 2014: Napolitano teste al processo Stato – Mafia. Per la prima volta nella storia della Repubblica un Capo dello Stato in carica è teste in un processo che tratta dei rapporti tra mafia e politica. Un primato del quale Giorgio Napolitano avrebbe fatto volentieri a meno.  Una testimonianza, quella dell’allora Capo dello Stato – morto oggi a 98 anni – dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo in trasferta al Quirinale, resa nell’ambito del processo sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra dopo le stragi del ’92-’93 e nata dalla lettera del consigliere giuridico del presidente, Loris D’Ambrosio, che nel giugno 2012, mentre sui media appaiono le intercettazioni registrate dalla Procura di Palermo tra lui e Nicola Mancino, decide di dare le dimissioni, che vengono respinte.  Un mese dopo D’Ambrosio muore, stroncato da un infarto.

Nella lettera il consigliere teme di “essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Parole che per la Procura palermitana meritano di essere approfondite, anche con l’autorevole ausilio del Capo dello Stato. Nella deposizione del 28 ottobre al Colle, Napolitano le definisce però “ipotesi prive di sostegno oggettivo perché altrimenti il magistrato eccellente Loris D’Ambrosio avrebbe saputo benissimo quale era il suo dovere”.

Il rapporto tra Napolitano e le toghe palermitane non è stato privo di contrasti.  Nel luglio 2012 il Colle solleva il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ritenendo che le prerogative del Presidente della Repubblica siano state lese per la decisione presa dalla Procura palermitana a proposito dell’utilizzo di conversazioni telefoniche tra il Capo dello Stato e l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, intercettate sull’utenza di quest’ultimo.

Una scelta spiegata con queste parole: è “dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare che si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

Una vicenda che si trascina per mesi, fino a quando, nell’aprile del 2013, proprio mentre le Camere cercano, invano, di eleggere il successore di Napolitano, la Corte di Cassazione mette la parola fine alla lunga diatriba delle telefonate tra lo stesso Napolitano e Mancino: le intercettazioni dei quattro colloqui, infatti, verranno distrutte. La Corte d’Assise di Palermo, però, non molla la presa e ribadisce la necessità di sentire come testimone al processo sulla trattativa Stato-mafia il Capo dello Stato.

La deposizione, chiesta dai Pm, era già stata ammessa, ma dopo la lettera inviata a fine novembre alla Corte d’Assise da Napolitano, alcuni legali ne avevano chiesto la revoca.  In quella lettera il Capo dello Stato chiedeva di fatto di evitare la deposizione, spiegando di non sapere assolutamente nulla delle vicende che sono d’interesse della Corte. Si arriva così al giorno della deposizione, off limits per la stampa. La trascrizione delle tre ore di faccia a faccia con i giudici sarà diffusa pochi giorni dopo.

Tra le 40 persone che varcano la soglia del Quirinale per partecipare all’udienza c’è anche il legale di Totò Riina Luca Cianferoni.  Per Napolitano teste, il suo ex consigliere giuridico era “animato da spirito di verità”. Era un D’Ambrosio “insofferente” dopo la pubblicazione delle sue telefonate con Mancino, ma non preannunciò al Capo dello Stato né la lettera né le dimissioni. Quanto alle bombe dei primi anni Novanta, il Presidente dice chiaramente che con gli attentati “la mafia voleva destabilizzare il sistema”.

Nel suo congedo dalle toghe, da Presidente del Csm, Napolitano, nel plenum straordinario del 21 dicembre insiste sulla necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle lo “sterile scontro” tra politica e magistratura, ma al tempo stesso sottolinea come non si possano non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Nessun riferimento diretto, naturalmente, allo scontro con i magistrati palermitani, ma è una ferita ancora aperta.


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