Moro, le Brigate Rosse e i misteri della Repubblica
di GINO ZACCARI
Era un martedì, il 9 maggio 1978, ed era mattina quando Franco Tritto, assistente universitario di Aldo Moro ricevette una telefonata nella quale gli si chiede, in ottemperanza alle ultime volontà del Presidente, di informare la famiglia, senza passare per i canali ufficiali, che avrebbero trovato il corpo dell’onorevole in una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, non lontano da via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, e da piazza del Gesù, sede della DC. Tritto nell’ascoltare quelle parole è spaesato, imbambolato, chiede più volte con chi sta parlando, cosa deve fare, il suo interlocutore, immaginando che il telefono sia sotto controllo vuole fare in fretta ma vuole anche accertarsi che il messaggio sia stato compreso:
– Ecco, non posso stare molto al telefono… Quindi, dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente, anche se il telefono ce l’ha sotto controllo non fa niente. Dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro…
Tritto lo interrompe: – Cosa dovrei fare?
– Mi sente?
– No, se può ripetere, per cortesia… – balbetta l’assistente.
– No, non posso ripetere, guardi… Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani…
– Via?
– Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Va bene?
– Sì.
– Lì c’è una Renault 4 rossa… I primi numeri di targa sono N5.
– N5… Devo telefonare io? – chiede Tritto, sempre più agitato.
– No, dovrebbe andare personalmente.
– Non posso, – dice l’assistente con la voce rotta.
– Non può? – domanda il brigatista.
Tritto non risponde. Piange.
– Dovrebbe per forza, – insiste il suo interlocutore.
– Per cortesia, no… – singhiozza l’assistente.
La telefonata prosegue, Tritto non regge la tensione, chiede al brigatista se può passare la cornetta a suo padre, questi acconsente, attende e spiega al padre di Tritto quanto deve fare per adempiere alle ultime volontà di Moro, quando è sicuro che il messaggio sia stato compreso, riattacca.
E’ l’epilogo della prigionia e del sequestro Moro ma non della vicenda ad esso legata, è uno dei momenti più bui della storia repubblicana ma anche uno dei più intensi, la tensione accumulata nelle settimane precedenti si scatena tutta ora che i nodi sono arrivati al pettine.
Prima della famiglia di Moro, a via Caetani ci arriveranno le autorità, c’è la scientifica, la Digos, i carabinieri i servizi segreti. Sulla Renault 4 per primi lavorano gli artificieri, si teme possa essere un’imboscata, un trucco per attirare forze dell’ordine e personalità politiche e fare una strage. Gli artificieri completano le loro verifiche, è tutto pulito. Nel frattempo i giornalisti e i reporter tentano di avvicinarsi, ma per la gran parte l’accesso è negato, uno di loro che invece è riuscito a farsi autorizzare racconta il momento tragico della scoperta del corpo senza vita di Aldo Moro: “il portellone posteriore si apre, un gruppetto di fotografi da terra e da alcune finestre in alto scattano a ripetizione con i flash si tratta di Gianni Giansanti di “Time”; Rolando Fava dell’ “Ansa”; e Maurizio Piccirilli (ad un altro gli si inceppa la macchina: è rovinato, dopo tanti sforzi, non ha quella di riserva. Sconsolato prova e riprova a vuoto). Mentre sul balcone del Palazzo di fronte c’è la troupe della Gbr con l’indimenticabile Franco Alfano ed il tecnico Valerio Leccese autori della storica ripresa. Mi coprono la visuale. Giunge il ministro dell’interno Cossiga cui mostrano il corpo privo di vita di Moro rannicchiato nel bagagliaio. Solo per qualche istante riesco ad intravedere il cadavere. Arriva il prete dalla vicina Chiesa del Gesù che impartisce la benedizione alla salma straziata dai colpi della mitraglietta dei terroristi. Si avvicinano i vigili del fuoco che con molta umanità sistemano il corpo del leader Dc su una barella, lo ricoprono con una coperta, trasferendolo su un’ambulanza che lo porterà all’obitorio di Medicina legale dell’Università per l’esame autoptico. Intanto diversi esponenti democristiani, protetti dalle scorte e dal cordone delle forze dell’ordine, hanno reso omaggio alle spoglie”. Questo il tragico epilogo di quei 55 giorni di prigionia che avevano tenuto l’Italia e il mondo con il fiato sospeso, tra la speranza di salvare una vita e il lacerante dibattito che si era svolto, tra chi proponeva di aprire una trattativa e chi invece restava per la linea dura di non concedere nulla ai terroristi.
Per ritrovare e librare Aldo Moro furono mobilitati 13mila agenti di polizia, eseguite 40mila perquisizioni domiciliari e 72mila blocchi stradali, ma durante i quasi due mesi del rapimento nessun arresto venne eseguito. La maggior parte degli scritti redatti dal presidente durante la sua prigionia non è mai stata ritrovata. Alcuni vennero alla luce, seppure lentamente, e qui furono ritrovate accuse verso i compagni di partito: «Il mio sangue ricadrà su di loro», scrisse Moro. Sua moglie, Eleonora, che non perdonò mai Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini (segretario della DC), non permise che si celebrasse un funerale di stato, durante la prigionia del marito era riuscita a coinvolgere papa Paolo VI, amico personale di Moro, che scrisse una lettera alle Brigate rosse per chiederne la liberazione, ma anche la voce del Santo Padre non fu ascoltata.
La linea della fermezza, seppure dolorosa e molto criticata, fu giustificata dalla minaccia che un eventuale cedimento alla trattativa con i terroristi avrebbe aperto la strada a possibili altri episodi analoghi, erano anni di gravissima tensione proveniente non solo dall’estremismo di sinistra o di destra, ma anche da una situazione internazionale in perenne fermento. La gravità delle decisioni che la classe dirigente di quegli anni fu chiamata a prendere, era tale, che agli occhi dei contemporanei è difficile comprenderne la direzione o la motivazione. Senza volerci sbilanciare né in senso né nell’altro, vogliamo solo sensibilizzare il lettore di oggi, abituato allo stile “social”, dove da dietro la tastiera tutti sanno esattamente come stanno le questioni e cosa sia giusto e opportuno fare o non fare, che dare giudizi netti e lapidari sull’operato dei vari soggetti coinvolti ci allontana dalla comprensione di eventi estremamente complessi e drammatici. Molti interrogativi sulla vicenda restano aperti: depistaggi, false confessioni e dietrologie hanno reso il percorso verso la verità storia intricato e nebuloso, nessuno può, in coscienza, ritenersi ad oggi certo di come andarono i fatti e di cosa si cela dietro questo dramma che ha coinvolto, a più livelli, l’intera Repubblica Italiana.
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