Il Montaggio di Volkoff: se il Male è il conformismo
La spy story più interessante, e attuale in tempi di social, Ai e fake news, è stata scritta più di quarant’anni fa: si tratta de Il Montaggio (Settecolori, 425 pagine, 25 euro); l’autore è Vladimir Volkoff: russo di origini, figlio di un emigré riparato in Francia dopo la Rivoluzione d’ottobre. Lo si disse discendente addirittura di Piotr Caikovskij. Fino a 21 anni fu apolide. Poi la Francia, generosa madre d’ogni burocrazia, lo riconobbe parigino.
La vicenda ruota intorno alla vita, brillante, del signor Aleksandr Dmitric Psar. Figlio di un guardiamarina, riparato in Francia dopo la sconfitta dell’Armata bianca. Scoprirà presto, il padre, che la vagheggiata sorella latina è in realtà un Paese ingrato, odioso, gretto. E sommamente ipocrita. A chi ha sacrificato, come lo Zar e il suo popolo, due armate affinché Parigi non capitolasse in mano ai tedeschi, i francesi non sanno che opporre il disgusto che suscita la vista dell’esule e il revanscismo piccolo borghese di chi ha perduto qualcosa del suo nel “prestito russo”. Nel figlio, la disillusione che il padre annega nell’alcol, si trasforma in odio che Aleksandr metterà al servizio del Kgb, dominato in Francia da Matvej Matvejic, che poi si scopre essere Mohammed Mohammedovic, Abdulrakmanov. Seguace di Sun Tzu, sa che le battaglie migliori sono quelle che non si combattono, ha imparato a vincere il nemico con altre strategie piuttosto che quella militare. Abdulrakmanov punta il giovane Psar. Per lui ha in serbo un progetto meraviglioso: farne un agente di influenza in ambito letterario e, tramite lui, distruggere dall’interno la cultura della Francia. Aleksandr, che al padre in punto di morte ha promesso che sarebbe rientrato in Russia, si impegna per trent’anni. In cambio della possibilità di tornare a casa, a prescindere dal soviet.
La trama si evolve e la tensione del thriller c’è tutta. Ma in realtà Volkoff ne Il Montaggio sembra utilizzare il genere, popolare per eccellenza, per comunicare qualcosa che gli preme molto di più della vicenda, seppur affascinante, di Psar e della sua avventura tra le spie. Il tema è semplicissimo. L’Occidente è marcio. Parole sue. E mica troppo distanti dal vero. L’intellettuale francese del romanzo, ambientato negli anni ’70, è un cortigiano agito dalla cupiditas serviendi che però, per darsi credibilità, affetta opposizione al “sistema”. Servendone, con zelo, un altro. Il giornalismo francese del romanzo, quello delle riviste alte e impegnate, pensose e progressiste, è stanco, abulico e popolato di impostori. A Psar, debitamente istruito dal Kgb basta davvero poco per imporsi alla direzione di un’orchestra che suona lo spartito che vogliono sentire a Mosca. Grazie a questo sistema, corroborato da una pesante collana di immancabili “libri bianchi”, Psar – che passa addirittura per facho chic – è riuscito a far polpette del sistema scolastico francese, ha tentato di insolentire Dostoevskij (vecchio pallino dei gauchos di ogni tempo, soprattutto i nostri), ha fatto inserire in libri debitamente pompati dall’orchestrina dell’opinione pensosa messaggi che rendono onore e gloria al comunismo, all’Urss e naturalmente a Lenin. Ma non a Stalin: a qualcuno bisognerà pur rinunciare, servirà pure costruire un capro espiatorio su cui scaricare gli inevitabili fallimenti del sistema.
Il romanzo, in alcune sue parti come il dialogo tra Aleksandr e lo stesso Abdulrakmanov, riporta per filo e per segno, denunciandole, le strategie di manipolazione nella comunicazione e nella formazione di quel mostro che si chiama opinione pubblica. Ma la vera denuncia di Volkoff è nel puntare il dito contro il conformismo. Non attacca l’intellettuale organico, il fiancheggiatore dichiarato di questo o quel partito politico. Quello, semmai, è un avversario dichiarato. Quella, dunque, è un’altra partita. Il Montaggio di Volkoff se la prende con i pigri, gli affettatori, i benpensanti contemporanei a lui (e a noi) che si scandalizzano per ogni cosa, che restano “con la mente aperta” per farsela riempire di sciocchezze utili alla causa di chissà chi e chissà dove. Se la prende, in definitiva, con quelli che un altro Vladimir, che però passerà alla storia come Lenin, identificò negli “utili idioti” che avrebbero spalancato le porte alla rivoluzione. E’ successo allora. Succederà ancora. E’ la propaganda, bellezza. E credere di vivere un’epoca che non ha bisogno di propaganda è quasi altrettanto sciocco che farsi massacrare, su una trincea o sui social (tanto, per troppi, è lo stesso) per idee di terz’ordine elaborate con malizia, diffuse per interesse, brandite con arroganza per legittimare piccole rendite di posizione o grandi interessi strategici.
Il Montaggio è entrato nelle classifiche dei libri più venduti. Se ne è parlato, poco. Così come accadde quarant’anni fa. Del resto non poteva andare diversamente. A distanza di tanto tempo, il libro si mantiene fedele alla sua natura. Quella, nelle parole di Paolo Isotta che lo recensì giusto quarant’anni fa su una rivista intitolata, manco a farlo apposta, Disinformatjia, di un “samidzat a uso dell’Occidente”.
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