Migranti: se non basta il Piano Mattei
Piano Mattei – Ora passare dalle parole ai fatti: occorre un programma di aiuti ai Paesi africani per gestire i flussi in partenza
di EDOARDO GREBLO
e LUCA TADDIO
Davanti all’imponente ondata di flussi migratori diretti verso l’Italia, l’immagine che meglio sembra descrivere il fenomeno sembra quella di una fiumana caotica di esseri umani, una corrente difficile da arginare a causa delle sue implicazioni umanitarie e delle sue ripercussioni politiche. Un’emergenza che i numeri rendono sempre più assillante e che solleva questioni cruciali come la gestione delle operazioni di soccorso, nell’immediato, e dell’accoglienza, a sbarco avvenuto. È evidente che di fronte a questa situazione le declamazioni propagandistiche non servono. Slogan e frasi ad effetto – blocco navale, porti chiusi, ricerca degli “scafisti lungo tutto il globo terracqueo” – hanno parecchia presa sull’immaginario ma scarsa, o nulla, incidenza sulla realtà. La questione dei migranti è straordinariamente complicata e non prevede soluzioni rapide e immediate, perché deriva da una molteplicità di circostanze: guerre, dittature, fame, diseguaglianze, calamità naturali (comprese quelle provocate dal cambiamento climatico), crescita demografica senza crescita economica, e l’elenco potrebbe continuare.
Il Piano Mattei per il primo Paese d’arrivo
Di fronte a queste situazioni, le risposte offerte dai Paesi d’arrivo, primo fra tutti l’Italia, appaiono chiaramente inadeguate. La prassi consolidata di tutti i governi, anche di quelli che hanno preceduto l’esecutivo attualmente in carica, è stata quella di affrontare il problema attraverso l’approvazione di una serie di “pacchetti sicurezza” che avevano come tema portante il contrasto alla mobilità umana indesiderata. L’immigrazione è stata considerata come un fenomeno cui opporsi con l’introduzione di misure restrittive, dal momento che l’arrivo di persone in fuga da gravi pericoli – e tra queste persone rientrano persino i minori non accompagnati – viene percepito da gran parte dell’opinione pubblica come una minaccia per la sicurezza e la stabilità sociale delle società riceventi.
Naturalmente, il controllo dei confini è una prerogativa irrinunciabile degli Stati e ciò significa, anche se affermarlo può suonare sgradevole, poter decidere chi può varcarli e chi no. Questo però non significa che rafforzare l’industria della sicurezza sia la soluzione, anche perché si tratta di un’industria che si nutre dei propri fallimenti: meno funziona, più investimenti richiede. E poi: come conciliare l’inasprimento delle politiche securitarie con il richiamo del presidente Sergio Mattarella a garantire “ingressi regolari in numero ampio” perché “l’immigrazione non si cancella con i muri”? O con l’appello del presidente della Cei Matteo Zuppi, o con gli allarmi dei sindaci che chiedono un modello di accoglienza diffusa e con le proteste delle Ong che denunciano di essere criminalizzate?
Sarebbe forse più opportuno de-nazionalizzare il controllo dei confini ad affidarne la gestione a una vigilanza condivisa, demandata a una guardia di confine europea e basata sulla collaborazione intergovernativa. Tanto più che i confini di un sistema integrato come l’Ue riguardano tutti gli Stati, non solo quelli investiti direttamente dal fenomeno. Eppure, i progressi in questo campo sono pochi, anche per la nota opposizione dei governi “sovranisti”, e tutti ispirati all’ortodossia restrittiva nei confronti dell’immigrazione. I governi incrementano la cooperazione sul terreno della sicurezza, si accordano per vigilare meglio sui confini, collaborano per tenere lontani la maggior parte di coloro che chiedono di entrare. Nel frattempo, la politica europea comune sull’accoglienza dei rifugiati non riesce a decollare, bloccata dall’opposizione aperta o strisciante della maggior parte dei governi. La divaricazione tra politiche della sicurezza e politiche dell’accoglienza non potrebbe essere più plateale.
Il primo passo: il Piano Mattei
Quanto più l’Ue sembra incapace di trovare una sintesi tra politiche che vanno in direzioni opposte, tanto più ricorre all’esternalizzazione dei confini e si affida ai paesi terzi per gestire la migrazione. La legittima lotta alla tratta e al traffico si trasforma, in questo contesto, in una cortina fumogena utile a nascondere la mancanza di idee e la riluttanza a intraprendere politiche più rispettose dei diritti umani, come quelle finalizzate a incrementare i percorsi legali e a gestire la migrazione in modo sicuro e ordinato. Una delle conseguenze di questo approccio, che cerca di sigillare le frontiere, criminalizzare l’immigrazione, condonare o addirittura sostenere pratiche illegali (come il respingimento), sospettare i richiedenti asilo di essere in realtà migranti economici sotto mentite spoglie, è che i migranti trovano sempre più difficile raggiungere l’Europa attraverso canali legali e si vedono costretti a intraprendere viaggi sempre più pericolosi.
Le politiche migratorie europee falliscono, e continueranno a fallire, se il loro obiettivo è bloccare una volta per tutte le rotte migratorie, alimentare la sindrome della “fortezza Europa” e affidare ai paesi terzi il compito di esercitare il ruolo di “avamposti” del controllo finanziando strutture di detenzione extraeuropee coordinate per interposto governo. E questo perché una nuova rotta migratoria verrà sempre trovata, probabilmente più pericolosa di quella precedente. Occorre invece prendere atto che la gestione della migrazione va inquadrata nella cornice più ampia dei rapporti dell’Europa con i Paesi africani passando, così dalle parole ai fatti. Il primo passo potrebbe essere l’implementazione dell’annunciato “piano Mattei”, attivando un progetto di aiuti ai Paesi africani in maggiori difficoltà, affinché vengano messi in condizione di mettere in pratica l’impegno a controllare i flussi a monte. Ma occorre, appunto, passare dalle parole ai fatti.
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